Accessibilità e inclusione: quando le scorciatoie fanno più male che bene

da | Ago 30, 2022

L’accessibilità del web è un tema antico quasi come l’origine del digitale, ma spesso dimenticato in fase di sviluppo. La soluzione non è scegliere la via più breve, ma quella più giusta.

Accessibilità e web: contesto

Era l’ottobre 1994 quando il padre del web, Tim Berners-Lee, menzionò per la prima volta il concetto di accessibilità web. Siamo alla International World Wide Web Conference a Chicago, la seconda di una serie di conferenze che ancora oggi si tengono a cadenza più o meno annuale e che hanno l’obiettivo di discutere le direzioni future del World Wide Web. 

L’accessibilità si è da subito presentata come una componente naturale del web, una prerogativa di sviluppo più che un optional da inseguire in un secondo momento. Nella visione di Berners-Lee (una citazione, questa, del ’97): il potere del Web sta nella sua universalità. L’accesso per tutti, indipendentemente da disabilità, è un aspetto essenziale. Sempre nel 1997, il World Wide Web Consortium (W3C, ancora oggi l’organizzazione che fa da spina dorsale dello sviluppo del web) lancia ufficialmente la WAI o Web Accessibility Initiative, progetto specificamente dedicato ad abbattere le barriere di accesso al web da parte di persone diversamente abili, promuovendo design, strumenti e linee guida per siti web più inclusivi. 

Fin dai suoi albori, quindi, il web è stato inteso come uno strumento che, a parte essere egalitario e indipendente da aspetti quali posizione, lingua o supporti (software e hardware), è anche in grado di funzionare ed essere alla portata di tutti, indipendentemente dal livello di abilità cognitiva, uditiva, visiva e motoria.

Siti più belli per tutti: l’accessibilità non è un optional

Ma allora perché, dopo oltre un quarto di secolo, lo sviluppo del web non è andato a passo con l’implementazione della sua accessibilità? Ancora oggi, è difficilissimo trovare siti accessibili come solo testo.

A febbraio 2022, un’idea dell’entità di questo problema ce l’ha fornita WebAIM, associazione senza scopo di lucro che opera dal 1999 per rendere i siti web più accessibili. Anche quest’anno WebAIM ha condotto uno studio, The WebAIM Million, volto a valutare l’accessibilità delle home page di 1 milione di siti web attraverso il loro tool proprietario, Wave. Dall’analisi è emerso che il 96.8% delle homepage presenta errori di accessibilità, con una media di 50.8 errori per pagina. Dati impressionanti, se si pensa che la selezione delle homepage oggetto di studio è la combinazione di tre autorevoli ranking di popolarità. Dati pericolosi, se si considera che la pandemia, enorme catalizzatore della trasformazione digitale a livello globale, ha portato a un miglioramento di 1 solo punto percentuale (nel 2019, le homepage con errori costituivano circa il 97.8% del campione). 

Ancora una volta, assistiamo a un trend di sviluppo che va in direzione opposta rispetto all’inclusività e che non potrebbe essere più lontano dall’utopia immaginata dai padri fondatori del web. Un’evoluzione che polarizza, perché viene offerto sempre di più e sempre il meglio a chi il di più e il di meglio ce l’ha già. Così facendo, si lasciano indietro pubblici nascosti. La lettura di questi dati ci dice che forse si sta prediligendo componente estetica (la grafica che stupisce e gli effetti che ammaliano) rispetto ad un sito accessibile, che offre la stessa quantità di informazioni ad ogni tipo di pubblico. 

Accessibilità e PA: da problema a discriminazione

Ma c’è di più. I problemi di inclusività non riguardano soltanto siti d’informazione, homepage corporate o marketplace. Riguardano anche la pubblica amministrazione, dove il problema si fa ancor più serio. Con la digitalizzazione post-pandemica di molte procedure, la mancanza di un’implementazione accessibile di queste ultime è una vera e propria discriminazione e un’inottemperanza della legge.

I primi provvedimenti in termini di accessibilità sono stati introdotti dalla legge Stanca nel 2004, e ancora oggi ci sono problemi quali valori di contrasto troppo bassi o moduli in pdf illeggibili per non-vedenti, per citarne solo alcuni, che non permettono a persone con disabilità visive e non solo di accedere a procedure altresì disponibili al resto della popolazione.

Dati i 18 anni di tempo e l’accelerazione incrementale dell’ultimo periodo, forse, siamo autorizzati a parlare di una violazione della carta dei diritti fondamentale dell’unione Europea. L’articolo 21 del titolo III, sulla non discriminazione, ci dice infatti che: “è vietata qualsiasi forma di discriminazione fondata, in particolare, sul sesso, la razza, il colore della pelle o l’origine etnica o sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua, la religione o le convenzioni personali, le opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, l’appartenenza ad una minoranza nazionale, il patrimonio, la nascita, la disabilità, l’età o l’orientamento sessuale. 

I falsi amici dell’accessibilità web

L’obbligo di accessibilità non riguarda soltanto le PA. Con il dl. 76/2020, anche le aziende che negli ultimi 3 anni hanno avuto un fatturato medio superiore a 500 milioni di euro sono chiamate ad adeguarsi. L’AgID, Agenzia per l’Italia Digitale, ha quindi esteso anche a queste entità le linee guida sull’accessibilità degli strumenti informatici. Ovviamente, con un aumento di domanda (di accessibilità), aumenta anche l’offerta di soluzioni. Negli ultimi anni, una serie di tool è salita alla ribalta, offrendo soluzioni a basso prezzo che, sulla carta, permettono alle aziende di correre ai ripari.

Sulla carta, perché la realtà dei fatti è ben diversa: questi tool, infatti, oltre a non risolvere il problema, spesso lo aggravano. Lo spiega bene Roberto Scano, professionista italiano nel campo di accessibilità (e non solo). In sintesi, questi strumenti aggiungono un ulteriore livello di codice a un determinato sito web, cercando di tradurre il contenuto non accessibile in accessibile. Se il principio potrebbe anche funzionare, a livello concreto si arriva a creare un sito parallelo rispetto a quello originale, il cui contributo verso l’accessibilità è minimo. Il più delle volte, infatti, ci si concentra su problematiche che vengono già risolte da dispositivi hardware e software di cui una persona diversamente abile si è già dotata autonomamente. 

Questi dispositivi di risoluzione automatica possono perfino complicare la situazione e diminuire il livello di accessibilità, proprio perché si tratta di processi automatizzati. Infatti, non essendo dotati della criticità tipica dell’elemento umano, gli errori di interpretazione da parte di questi strumenti sono tanti e spesso invalidanti. Come spiega l’autore, questi tool:

  • Non risolvono i problemi di accessibilità strutturale e di contenuti;
  • Non attuano modifiche a livello tecnico-organizzativo per la disposizione di contenuti accessibili;
  • Non sono conformi alla normativa vigente, che indica l’obbligo di un sito nativamenteaccessibile. 

Per gli attori che sono interessati ad ottenere un’accessibilità vera ed efficace è sconsigliata l’adozione di questi strumenti, che purtroppo sono simili all’applicazione di un cerotto su un braccio rotto. Una soluzione inadatta, inefficace e alla lunga controproducente.

Accessibilità: un problema di sostenibilità sociale

La verità è che l’accessibilità sembra difficile da risolvere solo perché non la si guarda con la lente giusta. La si considera un obbligo, un adempimento di legge insidioso e difficile, che porta inevitabilmente alla ricerca di scorciatoie. 

E se considerassimo l’accessibilità una questione di sostenibilità sociale? Come un impegno serio per l’inclusione e la rappresentazione? Allora sì che si potrebbe intendere la tecnologia nel modo giusto: una trasformazione che supporta l’uomo nel raggiungere il livello successivo, senza lasciare indietro nessuno. Non uno strumento in grado di funzionare e auto-risolversi senza supervisione. 

La soluzione per siti e contenuti davvero accessibili è quella di aprire il design alla questione dell’accessibilità. Fare scuola, a tutte le fasi del progetto e per tutte le persone coinvolte, affinché si propaghi una cultura di inclusività. In questo modo, anche decisioni a livello operativo saranno prive di bias che discriminano i diversamente abili, e i prodotti finali saranno puliti, inclusivi, ponderati. Promuovere la formazione degli attori coinvolti, senza limitarsi a istituire esperti di accessibilità che supervisionano il progetto, è un investimento che non può non tornare utile anche a livello di business. Perché nel medio e lungo termine, le linee guida menzionate in questo articolo saranno applicate in maniera sistematica. Una formazione di questo tipo eviterà al business del domani di dover ricorrere a soluzioni palliative e scorciatoie controproducenti.  

Percepire l’accessibilità in termini di sostenibilità sociale è quindi la decisione più responsabile, quella che serve per dare un messaggio chiaro e serio: questo prodotto è per tuttiquesto prodotto è stato pensato per tutti, in tutte le sue fasi, in ogni suo momento.

Elena Masia
Elena Masia
Con studi ed esperienze di lavoro internazionali, è una poliglotta in giro per l'Europa con una sola missione: trovare le parole giuste per comunicare nel terzo millennio.

Potrebbe piacerti anche