L’intervista di Andrea Roberto Bifulco a Massimo Chieruzzi, CEO di AdEspresso, in occasione del sesto evento del 2017 organizzato da Startup Grind Milano. Sul palco anche Paola Bonomo, Senior Member & Digital Wizard di Italian Angels for Growth e advisor di Moneyfarm e Euklid.

Questa volta ci siamo seduti comodi in prima fila. Dell’intervista si sono occupati quelli di Stratup Grind Milano. Ma vi racconteremo comunque la digital story di un’ormai ex startup: AdEspresso, italiana fresca fresca di exit.

Partiamo da Paola Bonomo, che come investitore ha avuto un ruolo cruciale nei primi capitoli di questa storia.

«La conoscenza di Massimo Chieruzzi per me risale a circa una decina di anni fa. Allora ero Direttore Marketing per la piattaforma italiana di eBay. Nel corso di un progetto, imbandimmo una gara per selezionare un’agenzia che ci aiutasse a portare avanti un lavoro in ottica SEO. Iniziammo così a collaborare con Creative Web, la web agency condotta a suo tempo da Massimo e da alcuni suoi colleghi che tutt’oggi lavorano insieme a lui in AdEspresso. Ebbi subito una prima buona impressione: l’interazione era piacevole, i risultati arrivavano. Negli anni rimase questo filo tenue che ci collegava. Poi, verso la fine del 2012, come membro di IAFG, ci rincontrammo. Max ci raccontò la sua idea di ottimizzare l’A/B test e le pubblicità su Facebook. A quel tempo, nel mondo dell’advertising, Facebook era un oggetto ancora poco conosciuto. Quando presentammo quest’opportunità di AdEspresso ai soci di IAFG , alcuni si mostrarono interessati a investire, ma non in numero sufficiente a creare un consorzio e andare avanti a fare le due diligence. Lì per lì non se ne fece nulla. Restammo comunque in contatto. Come sponsor dell’iniziativa ritenevo infatti che l’idea fosse meritevole. Considerate però che in quel periodo Facebook era stata quotata in borsa solo da pochi mesi e aveva fatto un’IPO molto controversa. Inoltre aveva un business quasi solo esclusivamente desktop. Su mobile stava appena incominciando a prender sul serio tutto il tema degli smartphone e delle applicazioni (oggi l’80% del fatturato pubblicitario di Facebook deriva dalla piattaforma smartphone/mobile) – capite come in questi cinque anni il mondo si sia rivoluzionato. Lasciammo l’opportunità in stand by. Poi verso settembre-ottobre 2013 Massimo si rifece sentire. Erano stati ammessi al programma di incubazione di 500 Startups

Il resto ormai è storia: due convertible note, una a novembre 2013, la seconda ad aprile 2015 e per finire, a dicembre dell’anno scorso, la transazione con Hootsuite.

Massimo, sessanta secondi per dirci chi sei.

«Ciao sono Massimo. Sono il cofounder e CEO di AdEspresso. Umbro, di Terni, sono nato come giornalista – lavoravo a Newton, periodico scientifico. Nel 2000, con ottimo tempismo, in piena bolla startup, ho aperto Creative Web, circa un mese prima che scoppiasse la bolla. Fortunatamente siam sopravvissuti. Finché un giorno, dopo quasi dodici anni di attività, cercando di risolvere un nostro problema, abbiamo concepito l’idea di AdEspresso. Da allora sono stati quattro anni intensissimi. Siamo passati da Milano a San Francisco, a Vancouver e poi di nuovo a Milano – almeno per me. Questo è quanto. Ah, sono un tipo abbastanza nerd: ho studiato economia, non mi sono laureato ma posso vantare il titolo di più giovane italiano denunciato per crimini informatici. Avevo quattordici anni. Gran smanettone, nel corso degli anni mi sono poi appassionato di marketing: AdEspresso è il frutto della sintesi di questa passione con le competenze tecnologiche che, come vi dicevo, ho dimostrato di avere sin dalla tenera età.»

Massimo Chieruzzi, CEO di AdEspresso con in mano una tazzina bianca di caffeCos’è AdEspresso? Cosa fa e cosa farà?

«AdEspresso è una piattaforma SaaS (software as a service) – non un software che scaricate sul vostro computer ma un software che usate sul browser. Aiuta le piccole e medie imprese a ottimizzare la pubblicità su Facebook. Come abbiamo iniziato? Per avere successo su Facebook, in ambito advertising, è necessario sperimentare molto. Noi avevamo un blog di recensioni di libri. Nei primissimi anni, quando ancora con un centesimo si otteneva un like, facendo promozione ci rendemmo conto di una cosa fondamentale: che gli uomini sono analfabeti. Stavamo pagando dieci centesimi per un click di un uomo e un centesimo per quello di una donna. Stavamo sprecando dieci volte i soldi che avevamo per fare pubblicità sul target sbagliato. Capimmo poi che se poi avessimo testato anche il titolo, l’immagine, sicuramente avremmo risparmiato ancora di più.»

«Con gli strumenti del tempo tuttavia, fare prove simili era una perdita di tempo assurda. Testare cinque titoli, cinque immagini e cinque target demografici significava creare 125 annunci a uno a uno a mano. C’erano si dei software ma erano pensati per le grandi aziende che avevano grandi budget e team molto tecnici: erano costosissimi ed estremamente complessi.»

«E allora perché non crearne uno tutto nostro? È quello che facemmo. Sviluppammo una piattaforma che univa da una parte un software che permettesse a tutte le piccole e medie imprese di testare in modo semplice ed economico diversi tipi di annunci pubblicitari  – per capire quali fossero il messaggio e l’audience perfetta e incrementare così i tassi di conversione. Dall’altra implementammo un sistema di formazione e di training. Investimmo molto in questo, sin dall’inizio. Perché alla fine il software di per sé ti può aiutare solo fino a un certo punto. Ma se non sai bene come funziona…»

«Di recente, abbiamo venduto la società a Hootsuite. Loro sono i numeri uno nel settore del social media marketing organico, non a pagamento; noi  eravamo i numeri uno nella parte advertising, quindi paid, su Facebook. È stata un’unione tra due realtà estremamente complementari.»

Quanto è stato difficile fare tutto questo qui in Italia?

«Sono abbastanza contrario ai catastrofisti, a quelli che dicono che non si possono fare startup in italia. Con AdEspresso abbiamo sempre avuto un focus globale. Non tanto per i soliti discorsi (le tasse, la burocrazia). Semplicemente, eravamo consapevoli che una startup che sviluppa un software self service a un prezzo che parte da 49 dollari, se anche avesse conquistato il dieci, il venti o il trenta per cento del mercato italiano non avrebbe mai avuto un ritorno economico significativo, né per sé né per gli investitori.»

«Ma sono anche un realista: in questo momento investire in Italia è un po’ più difficile. Iniziano a esserci degli angels, ci sono dei fondi di investimento sempre più importanti, ma resta comunque più complicato rispetto ad altri paesi. È più difficile anche in ottica exit, perché ci sono poche realtà grandi che hanno il fatturato e le risorse per comprare delle startup a cifre interessanti. Per contro, ci sono delle competenze incredibili, dei grandi talenti – noi di AdEspresso, per esempio, tutto lo sviluppo del prodotto lo facciamo qua in Italia.»

«Non fatevi ammaliare dal mito della Silicon Valley. Se volete creare il prossimo Google, il prossimo aereo a guida autonoma, forse in Silicon Valley ci sono dei talenti che non trovereste da nessun’altra parte. La verità però è che nella stragrande maggioranza dei casi non vi servono questi profili iper-specializzati. Vi servono degli ottimi sviluppatori, delle persone in gamba, eclettiche, che sappiano orientarsi in diversi scenari di business. Qua in Italia ce ne sono tantissime. Per di più sono tendenzialmente più economiche e soprattutto si affezionano all’azienda per cui lavorano.»

«In Silicon Valley, in questo momento, il turnover medio è di sei mesi. Quindi o siete Uber e crescete a ritmi mostruosi e allora la gente, per tenersi le stock option, non se ne va; oppure, qualsiasi persona assumiate, una volta che ha capito cosa sta facendo, vi abbandona perché c’è un’altra startup più figa, che sta crescendo più velocemente o che è più ammaliante.»

«Uno dei consigli che spesso, con Armando (l’altro cofounder di AdEspresso, n.d.a.), ci siam trovati a dare alle startup italiane che ci venivano a trovare a San Francisco è di non avere fretta di venire in Silicon Valley. È un ambiente ultra competitivo, molto costoso, dove acquisire nuovi talenti è una prassi durissima. Perché se volete una persona, magari la stessa persona la vogliono anche Facebook o Google, colossi contro i quali non potete competere da un punto di vista economico. Noi, per esempio, facendo un software di ottimizzazione di advertising su Facebook, non potevamo neanche giocarcela troppo su una mission di cui la gente si innamora e per cui corre a lavorare per te. Sotto questo profilo, in Italia è stato molto più semplice: Hootsuite ha riconosciuto il valore del nostro team e ci sta aiutando a farlo crescere.»

Quanto hanno influito le persone di cui ti sei contornato sul successo di questa iniziativa?

Se mi chiedi cosa son bravo a fare, mi metti in difficoltà. Nel corso degli anni, da Creative Web ad AdEspresso, probabilmente la cosa su cui ho avuto più successo è stato mettere in piedi il team, capire con quali persone volevo veramente lavorare. A partire da Armando. Un’altra cosa da non sottovalutare per chi smania di andare in Silicon Valley è che ci sono nove ore di differenza. Avere team su tutti e due i fusi orari è un incubo. Il motivo per cui siamo riusciti così efficacemente ad avere una buona parte del team a San Francisco, un’altra buona parte sparsa fra Stati Uniti, Sud America, Europa e un’altra grande parte, la più grande, qua in Italia, è stato che molte delle persone avevano già lavorato con me in Creative Web per diversi anni. Jesus (cofounder di AdEspresso, n.d.a.), che si occupa della parte di design, lavora con me da più di quindici anni. Questo è un grandissimo valore aggiunto. Perché non devi fare micromanagement, non devi farti quattro ore di call su ogni argomento perché non ti capisci, non ti fidi e vuoi controllare ogni dettaglio.»

«Dopo tutto quel tempo trascorso assieme, c’era un grosso rapporto di fiducia a monte. Avessimo dovuto costruire ex novo, dagli USA, un team qua in Italia, senza conoscerne i componenti, anche se fossero state le persone più in gamba del mondo sarebbe stato molto più difficile. Quindi, per rispondere alla domanda, il team, le persone di cui mi sono circondato sono state di sicuro la cosa più importante, soprattutto nella fase early stage. Anche per gli investitori. Questo penso che valga per ogni startup – anche se molte, quando fanno il pitch, non si focalizzano abbastanza su questo tipo di valorizzazione. Quando 500 Startups avvia un batch, una sessione di tre mesi, una sorta di classe composta da 30 startup, trovi quella che non ha numeri da mostrare perché non sta ancora fatturando, vende idee astratte, a volte complicatissime e si scorda di dire che, all’interno del proprio team, conta quattro PhD a Stanford – che è l’unica cosa che potrebbero concretamente spendere di fronte a un investitore.»

Come avete gestito l’exit?

«È stata una cosa lunga. I primi contatti con Hootsuite sono stati a marzo, in occasione di un evento a San Francisco. Ci hanno avvicinato con l’idea di acquisirci. Siccome non ci siamo trovati sui termini economici, abbiamo rifiutato l’offerta. Nonostante ciò, abbiamo istituito una partnership, iniziando a collaborare per fare un’integrazione di prodotto. Abbiamo così avuto modo di conoscerci, di lavorare con il loro team. Quando si sono ripresentati con una seconda offerta, ci sono state varie fasi, varie negoziazioni. Non solo economiche, anche su altri fronti. A noi interessava mantenere il team, l’indipendenza. Alla fine siamo arrivati a una soluzione ottimale per tutti.»

«Quando fai una exit ci sono molte cose che tieni in considerazione. Con Creative Web un errore che avevo fatto era stato considerare l’azienda alla stregua di una mia creatura. La consideravo come il mio bambino. Mentre più tardi ho capito che la tua azienda è si un bambino, ma un bambino che cresce e che poi a un certo puoi anche lasciare andare, sapendolo in grado di camminare con le proprie gambe e di cavarsela da solo.»

«Un’altra cosa che con AdEspresso ho vissuto in modo completamente diverso è stata la presenza di un gruppo di investitori alle spalle. Quindi altre persone coinvolte a cui dovevamo render conto, non solo da un punto di vista legale. Quando ottieni la fiducia e i soldi di terzi ti senti in qualche modo in dovere di fargli avere il ritorno che loro si aspettano.»

«C’è stata poi una questione di mission. La nostra era quella di aiutare le piccole e medie imprese ad aver successo su Facebook. Ora, effettivamente il primo giorno, quando fai le slide, sembra tutto – e forse anche lo è – una puttanata. Però man mano che la vivi, man mano che interagisci con queste persone e ti arrivano le mail della ragazza che ha appena aperto un negozio e ti ringrazia perché la sua azienda adesso è decollata e lei finalmente sta per sposarsi, ti rendi conto che è tutto estremamente serio e reale.»

«Hootsuite ha sempre condiviso questa mission, e ci ha permesso di raggiungere l’obiettivo che ci eravamo posti di aiutare ancora più realtà in modo sempre più efficiente ed efficace, sia sulla parte organica sia sulla parte paid. Tutto questo in una frazione del tempo che altrimenti avremmo dovuto impiegare. Con loro, nel giro di un quarter, anche nel settore sales, in cui non avevamo alcuna competenza, siamo già a regime e stiamo già cominciando a fare le prime vendite anche a clienti importanti.»

Il vero motivo per cui il CEO di Hootsuite ha deciso di puntare su AdEspresso

«C’è stata sicuramente una questione di feeling, di compatibilità. Ryan Holmes e il suo team venivano da una storia per certi versi simile alla nostra. Inoltre, anche loro avevano cercato di sviluppare un prodotto di advertising come il nostro ma non c’erano riusciti. Questo gli dava una maggior comprensione e consapevolezza di quanto fosse complesso quello che stavamo facendo e di quanto fosse importante il team al di là della mera tecnologia.»

«L’altro motivo è che avevamo una distribuzione eccezionale. Eravamo estremamente efficienti nel trovare nuovi clienti, nell’acquisirli a un prezzo estremamente economico. Siamo uno dei principali partner di Facebook per numero di clienti. Nessun partner di Facebook era riuscito ad andare sul settore small-medium business, un settore con bassi margini estremamente difficile, dove o hai una grande efficienza nel flusso marketing oppure non ne esci. Questo, penso, è ciò che ha reso AdEspresso particolarmente accattivante agli occhi di Hootsuite.»

Un consiglio a chi vorrebbe entrare nel mondo delle startup

«Capite innanzitutto qual è il vostro punto debole. Uno dei motivi per cui AdEspresso ha sin da subito puntato molto sull’efficienza del self-service, è che io non so vendere, non ha mai messo in piedi una rete di vendita. Il problema che vedo più spesso è che ci si innamora troppo del prodotto e delle competenze che si hanno. Se una persona ha un background di marketing è più naturalmente incline a pensare che il prodotto sia una cosa irrilevante e che la parte più importante sia la fase di vendita. D’altra parte, chi, come me, è più focalizzato sul prodotto, tende ad aspettare a vendere fino a che non ha creato il prodotto perfetto. La verità è che il prodotto perfetto non esiste. E se anche esistesse, non sarebbe mai superiore a un prodotto sufficientemente buono ma supportato da un’ottima strategia di distribuzione.»

«Un altro punto critico è non aver paura di sentirvi dire di no. Specialmente quando siete in cerca di investimenti. Non è un giudizio universale, non è un giudizio nel merito di quello che state facendo, del valore del vostro team e del vostro prodotto. È una mera valutazione di business. Anche perché un sì vale ben più di tutti i novecentottanta no che vi hanno detto prima e che in realtà hanno fatto sì che voi arrivaste e otteneste quel sì.»