Attendiamo di sapere quando l’auto elettrica conquisterà il mondo. Intanto ci interroghiamo sul nuovo paradigma (IoT) e sui suoi limiti (green).
Nel nostro blog ci stiamo occupando a più riprese del futuro dell’auto. Recentemente abbiamo ospitato una bella riflessione di Stefano Lazzari, che ci invita a non considerare più il motore al centro di tutto. Un triplo salto carpiato, per i tradizionalisti! Ci sono poi i due post di Daniel Neri sul caso Tesla (Innovazione di massa: il caso Tesla Motors e Tesla e il mercato che non c’era). Infine c’è il fatto che Spindox ha organizzato, insieme a Microsoft e Couchbase, un hackathon dedicato proprio agli scenari di business e tecnologici dell’auto connessa.
È convinzione diffusa che l’auto del futuro sarà eletrica. Ma una domanda resta inevasa: quando l’auto elettrica conquisterà il mondo? Entro il 2040 il 25% delle auto in circolazione saranno elettriche. Lo dice uno studio della Bloomberg New Energy Finance (BNEF). Entro il 2040 circa l’1% delle auto in circolazione saranno auto elettriche. Lo dice il World Oil Ooutlook 2015 dell’ OPEC. Di fronte a stime tanto divergenti il beneficio del dubbio sull’onestà intellettuale delle due parti vacilla, anche perché su un punto tutti concordano: il costo delle batterie agli ioni di litio, ad oggi la soluzione tecnica più vantaggiosa per i motori dell’automotive, crollerà del 30-50% prima della fine del 2030. Più ottimisti ancora gli analisti del Global Investment Research di Goldman Sachs: meno 60% entro il 2020. Un dedalo di supposizioni. Ma c’è un fil rouge da dipanare per sbrogliare la matassa e potersi orientare in questo labirinto tecnologico, una piccola grande certezza che ci sprona ad andare avanti: l’auto del futuro sarà connessa. “Cars will be networks. Cars are networks”, continuava a ripetere il relatore di un recente seminario sull’automotive security al Politecnico di Milano. Il senso dell’industria automobilistica degli anni a venire passa necessariamente attraverso la maglia di queste reti.
“Perché non parli?” Enchanted objects
Pervasive is persuasive. Così l’imprenditore americano David S. Rose, fondatore dei New York Angels, sul proliferare dell’internet delle cose. Quegli “enchanted objects”, come lo stesso David li ha definiti, animati da chip e sensori. Oggetti vivi perché parlanti. Sono infatti in grado di comunicare tra loro e, attraverso un’interfaccia, anche con l’utente. Scienza e téchne unite dalla e nella parola – nel senso lato di linguaggio, capacità di comunicare – in un rapporto sempre più simbiotico.
Celebre l’aneddoto michelangiolesco legato alla scultura del Mosè. Si narra che, contemplando la sua opera d’arte al termine dei lavori di rifinitura, di fronte al realismo delle forme l’artista abbia esclamato: “Perché non parli?” Ecco, l’anima dell’internet of things sta proprio in questa preziosissima prerogativa di comunicabilità e interazione con l’ambiente. Prerogativa che Michelangelo, all’epoca, non avrebbe mai potuto implementare nel marmo dei suoi capolavori e che invece rende i dispositivi IoT oggetti vivi, animati. Degli “enchanted objects” appunto. Dei Mosè parlanti.
IoC: Internet of Cars. L’era dell’auto connessa
Fulcro di questa proliferazione tecnologica è senz’altro il mercato dell’automotive: è l’auto connessa il totem dell’IoT. Il totem o perlomeno il trampolino di lancio. Le stime a riguardo delineano uno scenario piuttosto cristallino. I numeri a supporto sono coerenti, il trend è condiviso. C’è consenso. In un articolo su Fortune il direttore del McKinsey Global Institute James Manyika lancia il sasso pur senza ritrarre la mano: nel 2025 il business delle applicazioni IoT avrà un turnover di 11 mila miliardi di dollari. Un impatto pazzesco. Dello stesso tenore le proiezioni Cisco: la società americana leader nella fornitura di dispositivi di rete prevede un’opportunità di mercato di 19 mila miliardi per l’internet of everything – come lo chiamano loro. Sulla stessa linea anche le dichiarazioni Gartner: 250 milioni il numero di auto connesse entro il 2020. Numeri da capogiro, ma che fanno riflettere. Se vale lo stesso criterio per cui tre indizi fanno una prova, dati alla mano una sola sembra essere la via da imboccare. Quindi sì, un orizzonte cristallino. Sappiamo dove andare, quale direzione prendere. Meno chiaro cosa aspettarsi lungo il cammino. Di sicuro qualcosa di rivoluzionario.
Per stemperare le nebbie e scrutare più in profondità, abbiamo rispolverato una conferenza organizzata durante la CE Week del 2014: “C3: Connected Car Conference – The Internet of Things (and Cars)”. I relatori, un pool di esperti del settore, hanno offerto diversi spunti interessanti. Innanzitutto il concetto di macchina come piattaforma condivisa ma personalizzabile attraverso l’interconnettività dei dispositivi IoT – per esempio car-to-mobile e mobile-to-car. Caricando e scaricando i dati relativi alla nostra “vita digitale” ogni volta che utilizziamo il veicolo, “la parte digitale dell’auto diventa la parte personalizzabile, e quindi personale, dell’auto”. Una sorta di anima trasmigrante in grado di incarnarsi in un corpo come in un altro, in un’auto come in un’altra. Questo vale a maggior ragione se si sconfina nell’ambito del car sharing, fenomeno in crescita destinato a espandersi ulteriormente in futuro.
Insomma, l’auto è una piattaforma ideale in cui far convergere i flussi di informazioni e i dati provenienti dai diversi dispositivi digitali su cui facciamo quotidianamente affidamento. Una grande opportunità per l’industria automobiliistica e per tutti i provider di tecnologie smart.
Un altro concetto chiave, in parte già implicito in quanto detto finora, è quello di interoperabilità o di intercomunicabilità. Tutti i dispositivi IoT devono parlare la stessa lingua. È fondamentale – e come tale deve essere percepito dalle società che operano nel settore – soprattutto nella comunicazione vehicle-to-vehicle. Anche, ma non solo, per ragioni di sicurezza.
In terzo luogo, ma non meno importante, il concetto di elasticità e, più indirettamente, quello di velocità. Per rispettare i ritmi frenetici dell’evoluzione tecnologica i sistemi devono poter esser prontamente e facilmente aggiornabili, in particolar modo a livello di software. Quindi duttilità e versatilità delle architetture.
Stesso discorso per le infrastrutture. Si è parlato di “smart roads” a supporto delle smart cars. Un quadro in cui pubblico e privato sono invitati a collaborare, uniti in un sistema sempre più olistico, idealmente libero dalla morsa burocratica delle iper-regolamentazioni. Queste soffocano il mercato e inaspriscono i rapporti tra le parti nel tentativo, spesso vano, di tutelare il consumatore dalla proliferazione tecnologica. Dalla competizione alla cooperazione allora: anche l’IoT sembra spingere verso questo nuovo modello di business post-neocapitalistico. Un nuovo “mind set”, per usare le parole di uno dei relatori della conferenza, un “partnership model”.
Auto elettrica? La corsa alla super batteria
Quando l’auto elettrica rimpiazzerà l’auto a motore a scoppio? Accettando e aspettando con trepidazione questo fatidico giorno quasi come una verità di fede, proviamo a rispondere con un’altra domanda: quando gli scienziati scopriranno il santo graal, quella super batteria sufficientemente potente e sicura da poter competere con la densità energetica e il grado di libertà garantiti da un motore a combustione interna? Il numero magico è 1600, i wattora per chilogrammo di benzina, il livello di potenza medio che la gente si aspetta dal proprio mezzo di trasporto. “Le batterie agli ioni di litio (tecnologia mainstream anche nel mercato dei veicoli elettrici n.d.r.), producono solo un ottavo di questa potenza di output”, ci fa notare Steve Levine, corrispondente da Washington per Quartz e autore del libro The Powerhouse, candidato come Financial Times-McKinsey 2015 Business Book of the Year. Ma soprattutto costano. Circa $1,000 per chilowattora di energia in uscita. Conti alla mano, nell’economia del processo di fabbricazione di una macchina elettrica questo si traduce in almeno un terzo del prezzo finale del prodotto (8,000$ di batterie per un’auto da 20-24,000$).
Un problema di costi quindi e una tecnologia che ancora non esiste. Trascurando per il momento il discorso sull’inadeguatezza delle infrastrutture (colonnine per la ricarica, servizi di assistenza specializzati ecc.), il terzo grande deterrente alla diffusione nel mercato delle auto elettriche è, paradossalmente, una questione “green”, di sostenibilità. A prescindere dalla super batteria, un’auto elettrica consuma energia elettrica. Quali sono le fonti di quest’energia? Purtroppo, nella maggior parte dei casi, ancora combustibili fossili. Gas, petrolio e soprattutto carbone. Senza un consistente potenziamento delle rinnovabili l’auto elettrica non solo risuletrà meno conveniente delle cugine a motore a combustione interna, ma, al netto di tutto, anche meno pulita. Guardiamo il bicchiere mezzo pieno però: è una preziosissima occasione per innescare un circolo virtuoso di collaborazione sinergica e reciproco supporto tra il mercato dell’automotive e quello delle energie green. Nell’interesse di tutti, anche e soprattutto nell’ottica del business dell’energy storage, la cosiddetta “battery race”, la corsa alla superbatteria. Partecipate numerosi, la torta è grossa ma le fette sono contate. E se pensate di pasteggiare ancora a petrolio, ecco le famose parole dal tono profetico di Sheikh Ahmed Zaki Yamani, ex Ministro del Petrolio saudita, nel corso di un’intervista con Gyles Daubeney Brandreth. Correva l’anno 2000: “Trent’anni da ora (2030) ci sarà un’enorme quantità di petrolio – e nessun compratore. Il petrolio rimarrà sottoterra. L’Età della Pietra è terminata non certo per una mancanza di pietre.”