L’AUTOMAZIONE SCONVOLGERÀ IL MERCATO DEL LAVORO NEI PROSSIMI 50 ANNI. CALMA: NON È TROPPO TARDI PER PREPARARSI. PURCHÉ SI COMINCI DALL’ISTRUZIONE.

In un’epoca di stagnazione economica, come quella attuale, la relazione fra dinamica del mercato del lavoro e innovazione tecnologica appare in tutta la sua delicatezza. In sostanza la domanda che tutti ci poniamo è: le nuove tecnologie sottrarranno posti di lavoro? Abbiamo già avuto modo di accennare alla nascita di un nuovo paradigma produttivo, in cui convergono big data, cloud computing e una nuova generazione di sensori, più precisa, più potente e più economica.

A questo proposito una delle questioni su cui ci si è interrogati di più negli ultimi anni è come e in che quantità l’applicazione massiccia dell’automazione industriale inciderà sul numero dei posti di lavoro.

La premessa necessaria da fare è che sull’argomento si sono spese da sempre tantissime parole, spesso riconducibili a due schieramenti opposti riguardo al ruolo dell’innovazione tecnologica: gli entusiasti e i detrattori. Questi ultimi in particolare, dai tempi non sospetti degli inizi del XIX secolo, si sono guadagnati l’appellativo di luddisti. Titolo derivato dalla figura leggendaria di Ned Ludd, un tessitore inglese che nel 1779 avrebbe distrutto un telaio come protesta per rivendicare il proprio diritto al lavoro. Così ancora oggi con questo termine si intende indicare la posizione di chi protesta contro l’introduzione di novità tecnologiche nei processi produttivi.

Qualche dato ottimista

A noi di Spindox la contrapposizione fra tecno-ottimisti e tecno-apocalittici interessa poco. Coerentemente con la nostra anima digitale siamo orientati per istinto al futuro. Solo che lo facciamo a mente lucida, attenti a filtrare i cambiamenti con critica obiettivitità. Incominciamo quindi dalla lettura di alcuni dati.

Secondo una ricerca di Harvard Business Review la diffusione dell’automazione sarà economicamente molto vantaggiosa, generando un aumento della produttività tale da superare persino quello che, all’epoca, scaturì dalla diffusione del motore a vapore. Un sentimento ottimista che è riscontrato anche dai risultati di un’analisi del Pew Research Center che rileva come, seppure il 65% della popolazione americana ritenga che la maggior parte dei lavori saranno svolti da robot entro il 2065, l’80% degli intervistati è convinto che il proprio ruolo continuerà ad esistere in futuro. Solo il 10% teme di perderlo per colpa di una macchina.

Queste le ragioni dei tecno-entusiasti, ma approfondendo si scopre un panorama decisamente più complesso.

Una polarizzazione lunga 40 anni

Un paper pubblicato nel 2015 dall’Hamilton Project, anch’esso facente riferimento alla realtà statunitense, conferma che le innovazioni tecnologiche avvenute dagli anni ’70 in poi hanno comportato un miglioramento consistente e costante della produttività. Accompagnato però anche da una graduale polarizzazione del mercato del lavoro. Per tutti gli anni ’90 è stato sperimentato un aumento della domanda di impieghi a requisiti di specializzazione o molto bassi o molto alti. Ma se per i primi la domanda è ulteriormente cresciuta dal 2000 in poi, per i secondi ha segnato una battuta di arresto, pur registrando salari in espansione.

Dunque, proseguendo lungo questa traiettoria, la prospettiva futura sarebbe la seguente: pochi posti per iperspecialisti con stipendi sempre migliori, ancora più necessità di manodopera generica – pagata poco perché facilmente disponibile – e una diminuzione drastica del numero di lavori che richiedono un livello di competenze intermedio. Sono gli effetti causati dalla rapidissima ascesa del digitale avvenuta negli ultimi quindici anni e dall’attuale sviluppo dell’automazione, che ha allargato le possibilità di standardizzazione. Oggi le macchine possono sostituire cassieri, autisti, magazzinieri e addetti alle consegne, compiti ripetitivi non creativi dalla spiccata componente meccanico-fisica.

Resterebbero in vita due generi di impieghi: quelli che richiedono capacità di astrazione, comprensione profonda del linguaggio e della comunicazione visiva, che diverrebbero appannaggio di esperti, e tutte le occupazioni già oggi così economiche da rendere l’automazione non conveniente. In quest’ottica le preoccupazioni sembrerebbero giustificate perché, stando alle stime della Rice University, significherebbe perdere entro il 2045 più del 60% dei posti di lavoro.

Il sonno dell’istruzione genera mostri. Che dobbiamo combattere insieme

A cambiamenti di questa portata bisogna rispondere in modo consapevole e lungimirante, perché le decisioni intraprese oggi si ripercuoteranno sulla vita dei nostri figli e della intera generazione successiva. Si tratta di una responsabilità – e quindi di un potere – su un numero di individui troppo vasto perché possa essere lasciato alle logiche del mercato, i cui attori più influenti si sono rivelati troppe volte, e in misura troppo larga, egoisti e irremovibili nel perseguimento esclusivo del proprio profitto. Si tratta di interventi che riguardano la sfera sociale, dunque pertengono inevitabilmente all’amministrazione pubblica.

Il tema è complesso e richiede un’analisi adeguata che non abbiamo la presunzione di svolgere in questa sede. Però ci sembra doveroso segnalare che nei settori in piena evoluzione, come è quello delle nuove tecnologie digitali in cui operiamo, la competizione è alta, ed è impensabile non considerare il fattore chiave: l’istruzione.

Dal canto nostro siamo costantemente impegnati ad investire in giovani professionisti, ma non possiamo illuderci che ciò possa bastare. Per affrontare le grandi sfide che ci attendono abbiamo bisogno di essere sostenuti da un sistema educativo che nel suo complesso aiuti lo sviluppo dei talenti.

In “The race between education and technology” Goldin e Katz hanno osservato che per i primi tre quarti del XX secolo il tasso di istruzione eccedeva le necessità richieste per poter adoperare la tecnologia disponibile, mentre dagli anni ’80 in poi, causa soprattutto un declino delle competenze, la capacità di usare nuovi strumenti è divenuta accessibile ad un numero sempre minore di persone, che hanno comprensibilmente occupato le posizioni più alte delle fasce di reddito. È in un processo del genere che si è inserita la già citata accelerazione innovativa degli ultimi 15 anni, che sta contribuendo a rendere le retribuzioni migliori un bene ancora più scarso.

Il problema quindi non è l’innovazione in sé ma il fatto che da troppo tempo non si ha cura di affiancare ad essa un sistema educativo adeguato e attento alle evoluzioni della società. Una negligenza rischiosa, perché causa in ogni ambito – tecnologico, scientifico ed economico – un accentramento di conoscenza in un numero ristretto di esperti, cui i profani, per ignoranza, non possono che affidarsi ciecamente.

Con queste premesse come si può costruire un futuro di progresso e benessere condiviso, invece che di mero sviluppo riservato a pochi?