Di Bitcoin e Blockchain s’è parlato tanto, forse troppo – e forse non nel modo più opportuno. Oggi, tra apologeti e detrattori, l’hype monta pericolosamente. Quella che era ed è tuttora una tecnologia complessa e difficile da comprendere, si è trasformata in una moda, un brand, una paroletta magica facile da pronunciare e per questo sulla bocca di tutti, anche e soprattutto di chi, in realtà, ne sa poco o nulla. Perché per capire fino in fondo Bitcoin non basta essere esperti di informatica. Bisogna saperne di coding, crittografia, teoria monetaria, teoria dei giochi. Come per tutte le cose belle e difficili, è necessario un approccio multidisciplinare.
«Non aver avuto una strategia per internet nel 1995 equivale a non avere una strategia per il bitcoin ora» (Moe Levin, BitBay Europe); «Il bitcoin è una notevole conquista crittografica e la capacità di creare qualcosa che non è duplicabile nel mondo digitale ha un valore enorme» (Eric Schmidt, ex CEO di Google); «Bitcoin è una sorta di TCP/IP della moneta» (Paul Buchheit, creatore di Gmail); «In questo momento bitcoin è un po’ come internet prima dei browser” (Wences Casares, Banco Lemon).
Questa carrellata di citazioni non è solo una banale scappatoia per deviare sul piano delle similitudini e delle metafore una discussione che dovrebbe essere affrontata a livello tecnico (per capire bitcoin bisogna andare sul tecnico; vero anche che un approfondimento di questa risma può richiedere mesi – giusto per rendere un po’ l’idea). Ha lo scopo di introdurre, proprio grazie a una metafora, un punto abbastanza centrale, che dovrebbe essere chiaro sin da subito ma su cui si continua a fare confusione: bitcoin no, ma blockchain sì. Qui per comodità, prendiamo in prestito il pensiero di Giacomo Zucco, riportato in un articolo del blog Econopoly del Sole 24 Ore.
Non esiste blockchain senza bitcoin
«La cosa interessante sarebbe solo la underlying technology. In realtà, senza un incentivo economico non esiste consenso open/permissionless sulla blockchain. E senza necessità di creare uno scenario di consensus open/permissionless non serve a nulla blockchain. È un po’ come quando gli incumbent telco volevano l’online senza Internet. Internet è Bitcoin, online è blockchain. Non esiste blockchain senza bitcoin. Mentre, paradossalmente, è possibile far viaggiare bitcoin senza blockchain (per esempio negli Exchange).»
La blockchain è solo «un marcatore temporale», come la definisce in un suo articolo Massimo Chiriatti; è una conseguenza di bitcoin. Quindi – primo mito da sfatare – non esiste blockchain senza bitcoin. «Una blockchain pubblica non può vivere, se vogliamo garantirne la massima sicurezza, senza l’uso dei bitcoin». I bitcoin, infatti, sono diventati, a loro volta, l’incentivo economico, il movente che fa sì che ci sia qualcuno che sia disposto a vendere il proprio tempo, il proprio lavoro. Perché per mantenere in vita un sistema proof of work così complesso e per garantire tutte quelle proprietà che rendono la tecnologia bitcoin-blockchain interessante agli occhi dei più (non duplicabilità, decentralizzazione, incorruttibilità, trasparenza, etc.) non bastano la buona fede e la buona volontà: serve un’ingente forza lavoro. E in questo mondo, in questa società, il lavoro ha ancora un costo (fare mining è un attività dispendiosa).
Blockchain private? Acqua asciutta
Ora, abbiamo appena utilizzato il termine «blockchain pubblica». In realtà questa dicitura è pleonastica, perché, per sua natura, una blockchain è sempre pubblica. E qui veniamo a un secondo mito da sfatare. In realtà è uno specchietto per allodole, e pure c’è chi si ostina a parlare di blockchain private. Ecco allora cosa vi risponderebbe un vero esperto di bitcoin: «Parlare di blockchain private, vendere blockchain private (o permissioned) sarebbe come vendere acqua asciutta. Lo posso fare, ma solo se tu non sai che cos’è l’acqua. Alcune banche stanno inseguendo il sacro graal della blockchain privata, essendo attratte dalle proprietà di questa tecnologia, ma temono bitcoin perché non può essere controllato, perché non ne avrebbero il signoraggio. Ci sono allora dei consulenti spregiudicati, delle grosse compagnie di consulenza che, perfettamente consce di accentuare quest’illusione verso il sacro graal, vendono alle banche o agli enti interessati delle tecnologie che di innovativo, forse, hanno solo il nome. Di fatto però ripropongono modelli e prodotti già in commercio 30 anni fa. Il caso più lampante è quello di una società che ha commisionato a un’importante azienda di consulenza una blockchain editabile. Ora, possiamo chiamarla come più ci pare e piace, ma da che mondo è mondo, una blockchain editabile, quindi modificabile, altro non è che un banalissimo database, una tecnologia che esiste dagli anni ‘90.»
Duro a morire, perché antifragile
Terzo mito da sfatare: bitcoin è ben lungi dall’essere morto, o, per dirla con Jon Evans, colonnista di TechCrunch, «è molto meno morto oggi di tutte le altre volte in cui ne era stata erroneamente decretata la fine». Sta vivendo una fase transitoria, di cambiamento, che come tale comporta e fa emergere tutta una serie di problematiche. Per citare le due cha fanno più rumore: la disputa sulla dimensione dei blocchi e il conseguente spettro di una hard fork e la questione dell’oligarchizzazione della blockchain da parte dei miner cinesi. C’è un filo che lega queste due problematiche, che per certi aspetti si sovrappongono, legate come sono l’una all’altra, soprattutto nella misura in cui lasciano trapelare una piccola grande contraddizione interna al sistema: la necessità che, forse, dopotutto, il progetto di rete decentralizzata per antonomasia richieda «una qualche forma di governo tecnico, di guida» (di certo non i miner che, per quanto fondamentali, hanno un ruolo molto limitato e non possiedono le competenze tecniche necessarie per continuare a sviluppare il codice base di bitcoin) – Evans, nel suo articolo, vede di buon occhio l’egida politica di un organismo internazionale simile o equivalente a un IETF (Internet Engineering Task Force) o a un ICANN (Internet Corporation for Assigned Names and Numbers).
Infine, bitcoin non è morto perché è duro a morire. Ed è duro a morire perché è un sistema antifragile. Prendiamola larga. Così la pensa Marco Amadori: “con bitcoin siamo di fronte a una tecnologia basata su una rete eterogenea di individui sconosciuti, potenzialmente criminali, da cui tuttavia, alla fine, emerge sempre una verità, più forte, più vera di quelle spesso illusorie o fallaci sbandierate da enti e governi centrali”. Questa è la grande innovazione della bitcoin-blockchain: una rete in cui ognuno si presenta al prossimo qualificandosi per il lavoro svolto. Un lavoro che richiede il consumo di un certo ammontare di risorse. Lavorare per il sistema è quindi nell’interesse di tutti perché il bene di tutti coincide con il bene dei singoli e, viceversa, l’interesse dei singoli confluisce nell’interesse comune – la mano invisibile smithiana emerge sullo sfondo anche di questo scenario, un vero e proprio contesto microeconomico. “Se non altro in quanto un atto malevolo contro il sistema avrebbe in primo luogo ripercussione sull’artefice del misfatto stesso, che subirebbe immediatamente il danno maggiore – se ti comporti male come minatore, il tuo investimento milionario perde di valore perché alla fine le bollette le paghi in moneta fiat; se il tuo comportamento da minatore danneggia il mercato, il prezzo del bitcoin cala e il tuo investimento vale meno”. C’è più di una buona ragione per esser virtuosi.
In un certo senso, a livello morale, bitcoin può essere visto come una presa di coscienza che le persone non sono tutte buone. In quest’ottica, “non ha senso creare dei sistemi basati sulla benevolenza – vd. BdT, banche del tempo – in cui basta l’operato di un singolo attore negativo a minare criticamente l’incolumità dell’organizzazione. Bitcoin da parte sua riconosce l’avidità nell’uomo e la mette, cinicamente ma anche realisticamente, a variabile del sistema. Ma fa ancora di più: trasforma quella che inizialmente era vista come una debolezza in un punto di forza”. In un sistema governato da una logica degli incentivi (o teoria degli incentivi), l’avidità diventa il vincolo – in un’accezione ingegneristica del termine, quindi non tanto come ostacolo bensì come punto di appoggio – che rende possibile la fissazione di una verità incontrovertibile, di un valore positivo. Insomma, si tratta di un sistema in cui si ha un vantaggio economico notevole a rispettare una buona etica. Per converso, chiunque decidesse di agire in malafede con il bieco scopo di arrecare danni, andrebbe incontro a svantaggi enormi. Alla fine, paradossalmente, proprio o anche perché sono avido, sarò portato a operare per il bene comune: è ciò che più mi conviene.
Ci troviamo di fronte a una forma di contromisura inscritta al sistema, una sorta di apparato immunitario congenito che si aggiunge alle contromisure di mercato di cui parlavamo prima (se danneggi il sistema il tuo investimento non vale più niente o comunque crolla di valore). “Se mai ci fosse un’entità che volesse andare in perdita o un ipotetico stato totalitario che decidesse di investire per bloccare il sistema a prescindere da quello che gli costerebbe, quindi secondo una logica autodistruttiva, basterebbe cambiare il protocollo per espellerlo e vanificare così tutti gli sforzi e gli investimenti fatti – danneggiare il sistema costa un mucchio di soldi”.
È per questa serie di considerazioni che possiamo parlare di bitcoin come di un sistema antifragile: perché non solo resiste a un determinato tipo di attacco, ma una volta subitolo, diventa immune a quell’attacco, a quel danno, a quell’urto, a quello shock. “È un sistema antifragile in quanto è costituito da sottosistemi fragili che possono essere sostituiti. Per esempio, se il valore dei bitcoin dovesse crollare, alcuni minatori andrebbero fuori mercato. Quali? In primis quelli che agivano per motivi speculativi”. Insomma, dai una botta al mercato e, quasi per magia, ti ritrovi un sistema epurato dei suoi individui “peggiori”.
Paradossalmente, un sistema antifragile è forte proprio perché le singole componenti di cui è costituito sono deboli. Essendo l’antifragilità una caratteristica degli organismi biologici, bitcoin può essere visto come un organismo vivo, una forma di vita “intelligente”, tutt’altro che morta.