Partiamo dal convegno Blockchain Business Revolution per cercare di guardare oltre l’hype del fenomeno blockchain. Ecco gli spunti più interessanti che ci portiamo a casa.

Repetita iuvant e allora noi lo ripetiamo: blockchain è un tema complicato – e delicato – non solo dal punto di vista tecnologico. Lo è anche e soprattutto sul piano logico e politico, di governance.

Fatta questa doverosa premessa, veniamo subito a una prima questione. Per molti è la questione: «si può davvero scollegare blockchain da bitcoin?». È Valeria Portale, Direttore dell’Osservatorio Mobile Payment & Commerce del Politecnico di Milano, a gettare il sasso. Tempi e contesto inibiscono il nascere di un potenziale acceso dibattito. Per Luca Sannino, cofounder di Inbitcoin e docente SDA Bocconi, e Gabriele Domenichini, Head of Technology & Venture di BlockchainLab, la risposta è che la domanda è fuorviante. Come farebbe notare Giacomo Zucco, CEO di BlockchainLab, sarebbe un po’ come volere l’online senza Internet.

Senza scendere troppo nel merito della questione, rimandiamo a un nostro articolo di approfondimento, in cui è stato toccato anche un altro punto emerso e sottolineato in sede di convegno: blockchain significa avere informazioni di carattere transazionale che sono disposto a mettere in condivisione. Se ho un database statico o privato una blockchain non mi serve a nulla. Dietro questa chiosa, sempre di Valeria Portale, riecheggia lo spettro della blockchain privata. Un contributo importante in questo senso ci viene ancora da Gabriele Domenichini, che fa chiarezza sottolineando la differenza, di concetto e di sostanza, tra la blockchain – che è open e permissionless, quindi pubblica per sua natura intrinseca – e un distributed ledger, che invece può essere distribuito, ma comunque centrato, su una rete definita e limitata di nodi.

«È certamente un concetto nuovo, che trova ambiti d’applicazione promettenti», osserva sempre Domenichini. «Far passare il tempo di settlement da tre giorni a istantaneo. Ma questa non è la blockchain. La blockchain aggiunge immutabilità e decentralizzazione». A tale riguardo l’atteggiamento delle banche è «schizofrenico». Alcune cercano di distogliere l’attenzione dalle criptovalute e dalla blockchain, altre, le più intelligenti e scaltre, ne indagano, più o meno segretamente, il mondo, in tutta la sua complessità e, almeno per ora, opacità. Come fa notare Fabio Malosio, Businiess Development Blockchain Solution Leader per IBM Italia, la blockchain è 20% tecnologia e 80% trasformazione dei processi – da privato, ristretto e nebuloso a pubblico, aperto e trasparente. Da qui la suddetta complessità: «il 98% del mercato oggi non è digitale proprio per questo motivo».

Un cambio di paradigma, dunque, che deve tuttavia essere supportato da una regolamentazione e da un sistema di normative adeguato. «Il fintech postula nuovi diritti fondamentali», puntualizza Stefano Capaccioli, Presidente Assob.it. Il quale poi spiega: «la decentralizzazione non era prevista. Le regole del gioco oggi vigenti sono state emanate per situazioni che non tenevano conto di un’innovazione di tale portata. Quando arriverà, molto probabilmente comporterà un cambiamento sconvolgente, simile a quello innescato dall’avvento degli smartphone». È allora opportuno liberarci una volta per tutte dalla «logora litania della criminalizzazione delle criptovalute», che non ha alcun fondamento oggettivo né un riscontro quantitativo. L’invito è a superare un approccio reazionario e conservativo, tipico del nostro paese. E questo nonostante, per paradosso, l’Italia sia l’unico tra i ventotto membri della Ue ad avere una bozza di normativa sulle valute virtuali.

Lo stesso approccio che, all’inizio degli anni ’90, aveva la stampa nei confronti di internet, da cui metteva in guardia. Dati e numeri infatti scagionano le criptovalute. Secondo un report distribuito lo scorso 26 giugno dalla Commissione Europea nell’ambito dell’attività di analisi di cui alla Direttiva 2015/849 in tema di riciclaggio e finanziamento al terrorismo, il rischio legato all’utilizzo delle criptovalute viene definito «moderatamente significativo» – per intenderci, un valore pari a 2 in una scala da uno a dieci (per chi volesse approfondire, rimando all’articolo Report UE: le criptovalute non fanno gola ai criminali).

In questo scenario un ingrediente fondamentale, forse il più importante perché intrinsecamente rappresentativo del significato e dal valore della blockchain, è il concetto di trust. «Occorre fiducia tra le parti», sottolinea Roberto Garavaglia, Coordinatore editoriale di Pagamentidigitali.it. Anche perché «secondo il codice civile un pagamento in cripto non ha ancora valore liberatorio». Chissà, forse un giorno non troppo lontano potranno venirci incontro le stesse banche, nel caso in cui decideranno di emettere le proprie valute crittografiche (Central Bank Cryptocurrrencies). È, per esempio, o perlomeno sembra essere il caso della Banca Centrale Indiana.

Ma mettiamo momentaneamente da parte l’ambito fintech. Vediamo quali possono essere gli altri casi d’uso di questa tecnologia. Giuseppe Cardinale Ciccotti, CTO di Uniquid Iot Blockchain Access Management, parla di soluzioni chiavi in mano blockchain agnostic orientate agli smart object. «Entro il 2025 ci saranno più di cinquanta miliardi di oggetti interconnessi. Questo pone problemi di installazione e di sicurezza – come gestire al meglio una tale popolazione di oggetti applicando le best practice più comuni?» Le tecnologie attuali infatti mostrano gravi limiti di potenza di calcolo ma, soprattutto, di scalabilità. Ecco allora che la blockchain, protocollo nativamente e intrinsecamente sicuro, si candida a divenire il più forte alleato, in qualità di abilitatore e potenziatore, dell’internet of things.

I campi di applicazione sono molteplici: automotive, telco e security solo per citarne alcuni. Ma anche food trackability e trasporti. Esemplare, a tal proposito, il caso Maersk. La compagnia di navigazione danese che si occupa di trasporto container ha stimato che circa il 20% delle spese dei trasporti è dovuto al peso della documentazione cartacea: certificati sanitari, fiscali e doganali. Una mole di informazioni che potrebbero benissimo essere trascritte sulla blockchain, con tutti i vantaggi che ne conseguono e abbattendo sensibilmente i suddetti costi.

Ultimi ma non meno importanti, segnaliamo gli interventi di Giuliano Pierucci, CEO di B2Lab, che mette in evidenzia la mancanza di skill verticali (sviluppatori solidity) e la conseguente necessità, critica per un buon ecosistema blockhain, di formare, meglio se internamente, queste competenze – come ci ricorda Ciccotti infatti, con un costo di circa settemila dollari a settimana “ le superstar della blockchain risultano inavvicinabili”; di Valerio Vaccaro, IoT Specialist di Eternity Wall, che pone l’accento sulla possibilità di sfruttare la scalabilità della blockchain per il time-stamping nell’ottica della notarrizzazione di qualsiasi informazione digitale. Infine, Federico Squartini, CTO di Spidchain, che propone un sistema di identità sovrane digitali garantito dall’immutabilità e dalla tracciabilità della blockchain.