Clairy è la start up nata da artigiani, che hanno ideato un cuore tecnologico per le piante. I loro prodotti permettono di purificare l’aria in casa e negli ambienti di lavoro e danno consigli su come alimentare il proprio benessere.

Abbiamo intervistato Vincenzo Vitiello, Chief Digital Office e co-fondatore.

Clairy o Laboratori Fabrici. Quale è il vero nome?

All’anagrafe la società si chiama Laboratori Fabrici perché l’idea iniziale era quella di creare un collettivo di designer, ma non è andata esattamente in quel modo, come si può intuire.

Fabrici era il nome del proprietario della casa dove volevamo creare la nostra sede, il Cavalier Fabrici. Ci piaceva l’idea del laboratorio che porta con sé quel sapore di artigianalità. Tuttavia, questo nome non si prestava al mercato estero, quindi abbiamo coniato Clairy, una combinazione di clean e air. Clairy è l’entità commerciale, mentre la parte strategica la porta avanti Laboratori Fabrici.

Qual è il vostro concept?

Natura e tecnologia sembrano due mondi apparentemente opposti, ma noi li facciamo interagire per prendersi cura dell’uomo.

Se ci pensiamo, respirare è l’unica cosa che davvero facciamo dal primo momento di nascita. Stiamo molto attenti a ciò che mangiamo, ma non a cosa respiriamo. I nostri prodotti si basano sulla purificazione dell’aria sfruttando le piante.

Come è nata l’idea?

Dalla mia tesi di laurea in design del prodotto dell’innovazione. Dovevo preparare tre concept e il progetto di purificazione dell’aria è stato un tema al quale mi hanno fatto appassionare dei miei professori. Ho cominciato a studiare e ricercare, tantissimo. Mi si è aperto un mondo e anche un network. E lì è partita l’avventura in Friuli Venezia Giulia con Alessio, il mio primo socio. Poi è arrivato Paolo, l’attuale CEO dell’azienda che ci ha dato una mano per stilare un modello di business vincente. Dall’srl al prototipo è passato poco.

I centri di ricerca a cui ci siamo presentati hanno creduto nell’idea e ci hanno sostenuti da subito. Così, nel gennaio 2016 abbiamo deciso di presentarci al CES (Consumer Electronics Show) di Las Vegas, la fiera di elettronica più grande del mondo.

Come vi siete presentati al CES?

In una maniera molto bizzarra. Abbiamo allestito il nostro stand con una pianta in un vaso di ceramica, a prima vista normalissimo. Noi raccontavamo di come il prodotto invertiva i bisogni: non è più solo la persona a prendersi cura della pianta, ma anche quest’ultima si prende cura di te. I visitatori si avvicinavano scettici, ma dimostravano rapidamente interesse. L’ultimo giorno della fiera un acceleratore della Silicon Valley ci ha contattati per prendere appuntamento con loro. Il nostro piano iniziale quando siamo partiti dall’Italia era di presentarci in fiera e poi fare una vacanza di due settimane. Dopo venti minuti di colloquio abbiamo stretto un accordo che ci ha fatti tornare negli USA per restarci tre mesi.

Cosa ti ricordi di quel periodo?

I processi degli incubatori sono sicuramente interessanti, ma l’aspetto più importante è che conferiscono credibilità, una sorta di pedigree per presentarsi al mondo dell’imprenditorialità. Di fatto però mettere a punto il tuo modello spetta a te. Plug and Play, nello specifico, investe in maniera diversa dagli acceleratori: aiuta a inserirti in un network, ma non ti finanzia.

La cosa più sfidante era il pitch day, il momento in cui devi presentare il concept a 30/40 investitori. Abbiamo imparato a comunicare l’idea in maniera veloce e attrattiva, senza svelare troppo per ingolosire la platea. E in uno di questi pitch day siamo stati selezionati da un investitore.

Che porte vi ha aperto questo percorso di accelerazione?

Dalla prima campagna di crowdfunding siamo riusciti a raccogliere una somma che ci ha permesso di dare vita alla nostra società americana. Dopodiché, altri due investitori hanno creduto nel nostro progetto e questo ci ha permesso di cominciare a respirare e di procedere con la creazione della prima catena di produzione e di logistica. La seconda fase del nostro percorso è cominciata quanto abbiamo deciso di partecipare al bando Horizon 2020 indetto dall’UE, un fondo di 3 miliardi di euro destinato all’innovazione. Lo abbiamo vinto dopo un anno di tentativi e questo ci ha decisamente risollevato. Ci siamo strutturati con un team, che oggi conta circa venti persone, suddivise in compartimenti specializzati, dal marketing alla ricerca e sviluppo, all’IT, alla logistica. Il fatto di avere competenze interne ci da la possibilità di seguire e controllare lo sviluppo di ogni prodotto.

Dacci qualche dettaglio sul vostro attuale modello di business

La campagna di crowdfunding terminata da poco ci ha portato quasi 1 milione di dollari. Questa somma ci sta permettendo di strutturarci meglio dal punto di vista industriale. Noi non produciamo, ma assembliamo. Abbiamo affidato la prodizione a terzi dislocati in Veneto. I nostri stakeholders sono tutti basati in Italia, anche per il fatto che per noi è fondamentale assicurarci della qualità dei nostri prodotti. Questi primi anni sono la fase più delicata ed è facile bruciarsi.

Che progetti avete per il futuro?

I nostri prodotti sono purificatori di aria che sfruttano le piante. Sono oggetti ibridi: green, ma con una forte componente tecnologica all’interno che permette di monitorare la qualità dell’aria. Oggi, stiamo cercando di concentrarci sempre più sulla questione dati. Questa focalizzazione ci permetterà di creare una massa critica di dati che ci aiuterà a fare machine learning, migliorare le performance e creare un algoritmo, che consentirà al nostro prodotto di diventare intelligente.

Esistono diversi parametri che determinano la qualità dell’aria e tramite la nostra app è possibile essere a conoscenza real time della qualità dell’aria che si sta respirando. Questo produce effetti benefici sulla nostra salute.

In futuro vogliamo applicare l’intelligenza emotiva al nostro prodotto. Più dati raccogliamo dagli utenti e in più scenari posizioniamo il prodotto, più questo impara.

Il nostro obiettivo è quello di realizzare prodotti che rispecchino le necessità dell’uomo e che lo aiutino nella quotidianità, per esempio sarà possibile che una pianta suggerisca cosa fare per non inquinare l’aria mentre si cucina.

A breve lanceremo Natede, la versione più innovativa di Clairy, che di fatto rimarrà solo il nome dell’azienda. Questo prodotto sarà industrializzato al 100% e verrà seguito nel 2019 da un ecosistema di prodotti al quale stiamo lavorando.

 Clairy in cucina

Avete anche piani in ambito B2B?

Il B2C era il modo più semplice per fare branding e per farci conoscere. Oggi l’evoluzione è assolutamente proiettata verso il B2B, un mondo molto più complesso, ma che crea valore, produce reale ritorno di tutti gli investimenti e che segue il filone della digital trasformation.

Vogliamo esplorare come i nostri prodotti possano influire sul confort aziendale sia per l’apporto del green che sull’aumento di produttività. L’aria, insieme alla lue e ai rumori, è un aspetto fondamentale. Il prodotto fisico diventa quindi una specie di plug in per i servizi che vogliamo offrire.

Le società che abbiamo intervistato fino ad oggi si sono innamorate del progetto perché vedono scalabilità e monitoraggio. Dopodiché, non è facile costruire la catena del valore e andare a parametrizzare questi progetti, ma ci stiamo lavorando.

A breve partiranno alcuni progetti pilota che ci consentiranno di comprendere al meglio le performance e fornire alle aziende un quadro più completo dei vantaggi che si possono ottenere.

Qual è il vostro principale driver?

Il fatto di essere green: tutti i nostri prodotti sono sostenibili e ogni minimo pezzo può essere riciclato. Il secondo aspetto è sicuramente il design. Per noi l’abito conta tantissimo perché i nostri clienti posizionano il nostro prodotto nelle loro abitazioni o nei loro uffici.

Ma il vero valore aggiunto è sempre la tecnologia. Noi definiamo il nostro prodotto tecnartigianale: le basi dei primi prodotti sono in ceramica, ma diventano ibridi con l’apporto del motore tecnologico.

Cosa significa per te fare start up?

Start up vuol dire fabbricare innovazione, costantemente, velocemente. Ormai tutto si connette. Occorre farlo in maniera diversa, sempre innovativa. Questo è l’aspetto più attraente per gli investitori. Inoltre, fare start up è anche un approccio: flessibilità, adattabilità, innovazione e tanta, tantissima ricerca. La ricerca è l’unico modo per non sgretolarsi ed essere veramente validi sul mercato. In Clairy abbiamo delle persone che fanno ricerca sulle piante h24.

Un consiglio per chi sta per lanciarsi nell’avventura di una start up?

Uno degli aspetti fondamentali è imparare a comunicare. La capacità di crearsi un brand e darsi un’identità fin da subito senza perdersi è basilare. Noi stiamo mutando velocemente, quindi siamo sempre in fase di definizione. Inoltre, c’è bisogno di crearsi il proprio spazio anche a livello mediatico. Un video ben fatto è necessario e fa sì che la sensibilità della gente comprende meglio il valore del prodotto. L’altro consiglio è quello di non continuare a cercare la perfezione. Il miglioramento sì, ma non la perfezione. La perfezione di oggi e tra un anno non sarà più perfezione. C’è bisogno investimento di tempo, costanza, prototipi su prototipi e cambi: è una lotta continua.

Ultima domanda: che curiosità ci dai su questo binomio tecnologia – natura?

Le piante sono estremamente permalose: se spostate dal luogo nativo subiscono uno shock ambientale e smettono di eseguire il loro compito. Ci vuole tempo perché si possono riassestare in un altro luogo e ricominciare a produrre. Inoltre, hanno un’intelligenza diffusa e sono l’essere vivente più intelligente che esista. Noi stiamo cercando di studiare, attraverso la neurobiologia delle piante, come questa può essere utile all’uomo, tutti i giorni.  Ovviamente, non avendo strumenti e background di biologia, è indispensabile legarsi a centri di ricerca internazionale che abbiamo coinvolto perché anche per loro è importante dare un risvolto mediatico alla questione.