Il modello low-code/no-code ha in suoi fan. Ma piattaforme come QuickBase sono una risposta alla carenza di sviluppatori? C’è chi ne è convinto. Anche se…

No-code, ovvero “senza codice”. E se l’assenza totale di codice vi sembra una missione impossibile, quantomeno parliamo di poco codice, per non dire ridotto all’osso (low-code). Non si tratta di una provocazione, ma di un modello di sviluppo del software attorno al quale si sta costituendo un movimento, negli Stati Uniti e non solo.

Che ridurre le righe di codice generi efficienza è cosa nota da tempo. Una delle ragioni per cui Spindox adotta oggi – per realizzare sistemi software distribuiti – architetture a microservizi è proprio questa: ciascun microservizio ha dimensioni molto ridotte. Ciò riduce la frequenza di errori o anomalie e agevola il refactoring. Del resto non si tratta di un paradigma nuovo. Le architetture a microservizi, a loro volta evoluzione del modello SOA (service-oriented architectures) non fanno che riprendere la filosofia originaria di Linux. E, a ben vedere, non c’è troppa differenza fra le piattaforme low-code di oggi e quello che un tempo chiamavamo rapid application development (RAD). Chi vuole approfondire l’argomento, trova pane per i suoi denti nello studio Microservices: yesterday, today, and tomorrow, pubblicato nel giugno scorso da un gruppo di ricercatori italiani, danesi e russi.

Ma il movimento low-code/no-code si pone obiettivi ancora più ambiziosi. Si tratta niente di meno che di colmare lo storico gap fra il mondo del business e l’IT, agevolando lo sviluppo di applicazioni che rispondono meglio ai requisiti degli utenti. Ciò è possibile perché sono gli stessi utenti, benché privi di competenze a livello di coding, a disegnare il front-end delle applicazioni. In tal modo si permette all’IT di dedicare tempo, energie e capacità allo sviluppo del front-end.

no CODE

QuickBase: un nome che è tutto un programma

Un esempio concreto di questo approccio è fornito da QuickBase, una piattaforma di sviluppo dotata di un’interfaccia drag-and-drop che permette di disegnare processi applicativi di base senza scrivere una sola riga di codice, ma semplicemente trascinando campi modulo, bottoni e altri elementi. Per usare QuickBase, affermano i suoi ideatori, bastano le competenze necessarie per lavorare con Excel. Brandon Vigilarolo evidenzia le potenzialità di QuickBase in un recente post su TechRepublic. Non meno entusiasta  Dion Hinchcliffe, che ha espresso la sua opinione in aprile in un post su ZDNet. Oltre a QuickBase, Hinchcliffe menziona piattaforme come IFTTT, Zapier e Mendix.

Un panorama complessivo del mondo low-code/no-code è fornito da Forrester, che identifica quattro leader di mercato: oltre alla già citata Mendix, del gruppetto fanno parte Appian, OutSystems e Salesforce. E proprio Salesforce rappresenta un caso particolarmente interessante di applicazione del modello low-code e di sviluppo affidato agli utenti. In giugno la società di San Francisco ha rilasciato una nuova versione di App Cloud, la sua piattaforma di sviluppo cloud-based. App Cloud fornisce una serie di strumenti con i quali gli utenti possono costruire diversi moduli applicativi di front-end e di back-end, in grado di interagire con la piattaforma di base e con le API di Salesforce. Inoltre lo strumento si integra con la piattaforma di sviluppo as-a-service Heroku. Di fatto si tratta di un nuovo modo di concepire lo sviluppo di mobile app, affidandolo il larga misura agli stessi utenti. App Cloud è un vero e proprio ecosistema, che comprende tutti i servizi di Salesforce: Force, Lightning, il già citato Heroku e Thunder.