È nelle conversazioni che si definisce il senso del linguaggio. Ma come cambiano le conversazioni con l’intelligenza artificiale? La riflessione di Mark Curtis a Meet the Media Guru.
Sono passati quasi vent’anni da quando il Cluetrain Manifesto proclamava la centralità delle conversazioni nei media, arrivando ad affermare che i mercati stessi sono nient’altro che conversazioni. Del resto la pragmatica linguistica e la filosofia del linguaggio ci hanno insegnato che il significato di ciò che diciamo si può comprendere solo all’interno delle conversazioni. Ma che cosa succede quando le conversazioni si sviluppano non più fra esseri umani, bensì fra esseri umani e computer? La domanda è stata al centro dell’ultimo appuntamento di Meet the Media Guru, dedicato appunto a linguaggio, intelligenza artificiale e conversazioni.
Due settimane fa la piattaforma di idee, incontri e approfondimenti sull’innovazione e la cultura digitale guidata da Maria Grazia Mattei ci ha fatto incontrare il Bio Design e le tecnologie indossabili di Lining Yao. La designer cinese ha raccontato al pubblico milanese i suoi studi sulla programmazione dello stato fisico di un materiale vivente per produrre interfacce innovative, tra cui Second Skin: la t-shirt il cui tessuto si compone, tra l’altro, del batterio Bacillus Subtilis Natto in grado di reagire in base all’umidità corporea presente nell’ambiente ospitante. Il tessuto così composto è in grado di capire se trattenere o disperdere il calore prodotto da chi lo sta indossando, in base alle necessità fisiche del corpo.
A distanza di due settimane, Meet the Media Guru ha proposto un nuovo interessante momento di riflessione, con il britannico Mark Curtis. Presso l’Auditorium Testori di Palazzo Lombardia, il fondatore di Fjord – società di Accenture Interactive specializzata in service design – ha ripercorso l’evoluzione storica delle conversazioni umane per giungere a parlare di intelligenza artificiale e ipotizzare come saranno le conversazioni tra uomini e robot in futuro.
Maria Grazia Mattei presenta Mark Curtis sul palco dell’Auditorium Testori.
Partendo dai temi affrontati in Distraction – Being Human in the Digital Age, l’ultimo suo libro, Curtis ha descritto come le conversazioni siano cambiate nel tempo e come l’avvento dei nuovi mezzi di comunicazione, della tecnologia e dei social media continui a trasformarle incessantemente.
Dal pensiero filosofico ai social media
Con un tuffo nell’Antica Grecia e nella filosofia di Socrate e Platone, Curtis ripropone durante l’incontro il Mito di Theuth e la leggenda del dono della scrittura, narrato in Fedro. Nel Fedro di Platone, infatti, la divinità egizia Theuth, propose al re, con stupore e fascino, la diffusione della scrittura al suo popolo come «farmaco della memoria e della sapienza». Ma il re Thamus rispose: «O ingegnosissimo Theuth, c’è chi è capace di creare le arti e chi è invece capace di giudicare quale danno o quale vantaggio ne ricaveranno coloro che le adopereranno. Ora tu, essendo padre della scrittura, per affetto hai detto proprio il contrario di quello che essa vale. Infatti, la scoperta della scrittura avrà per effetto di produrre la dimenticanza nelle anime di coloro che la impareranno, perché fidandosi della scrittura si abitueranno a ricordare dal di fuori mediante segni estranei, e non dal di dentro e da se medesimi: dunque, tu hai trovato non il farmaco della memoria, del richiamare alla memoria. Della sapienza, poi, tu procuri ai tuoi discepoli l’apparenza e non la verità: infatti essi, divenendo per mezzo tuo uditori di molte cose senza insegnamento, crederanno di essere conoscitori di molte cose, mentre come accade per lo più, in realtà, non le sapranno; e sarà ben difficile discorrere con essi, perché sono diventati portatori di opinioni invece che sapienti». Anche Mark Curtis, come il re Thamus, conferma come ogni nuova tecnologia faccia perdere qualcosa di quanto in precedenza si sia già posseduto.
Cosa abbiamo perso durante questa evoluzione?
La domanda a questo punto sorge spontanea. Il discorso procede con enfasi sull’utilizzo delle lettere. Curtis afferma che con esse la conversazione è divenuta asincrona, introducendo al contempo la permanenza dei messaggi. Al contrario, con le chiamate telefoniche la conversazione è sincrona permettendoci di avvicinarci, per lo meno in maniera immaginaria, anche a persone fisicamente lontane: il messaggio non è più permanente ma la distanza fisica viene abbattuta. Abbiamo guadagnato qualcosa, abbiamo perso qualcosa.
Con l’avvento dei social media arrivano spontaneità e condivisione, a discapito dell’attenzione: lo smartphone diviene il prolungamento del nostro corpo, non riusciamo più a separarcene. E siamo tutti più distratti. Ma lo smartphone non è più un telefono. La funzione principale per la quale era stato progettato viene utilizzata sempre meno: quante persone ancora oggi fanno una telefonata, se possono comunicare lo stesso concetto attraverso chat, sms o e-mail?
Anche il gesto, che si faceva un tempo, di portare la mano all’altezza dell’orecchio, simulando la cornetta del telefono (con il pollice e il mignolo distesi e le tre dita centrali piegate) per fare riferimento a una conversazione telefonica, che fine ha fatto? Ha ancora un suo valore? Adesso, al massimo, la stessa gestualità può richiamare, semmai, la cultura dei surfisti: lo Shaka Brah, o hand loose, che evoca lo spirito Aloha. È il caso dell’emoji su WhatsApp che indirettamente ricorda le chiamate telefoniche e che virtualmente, al contrario del gesto umano, all’interno dell’applicazione viene ancora utilizzato. Seppure erroneamente. Si confonde il simbolo di pace, amicizia, compassione e solidarietà diffusosi tra gli hawaiani – l’hand loose – con un ipotetico simbolo per suggerire “chiamami!”.
WhatsApp: emoji segno Shaka Brah.
E anche qui Mark Curtis ha detto la sua: egli sostiene che le emoji non siano altro che l’espressione del linguaggio del nostro corpo. Sostanzialmente, per mantenere attivo un elemento umano in una conversazione digitale ricorriamo a diverse “tecniche”: non solo le emoji, ma anche i i selfie e la comunicazione video in generale. Certo, i selfie sono la spia anche di qualcos’altro e segnalano una certa difficoltà nel tentativo di stabilire una relazione autentica a partire dalla propria immagine. In occasione del convegno Io sono Narciso. Dall’amore di sé alla distruttività ne ha parlato il nostro Paolo Costa presentando una relazione dal titolo “La parabola del sé dall’autoritratto al selfie”. In essa si esamina la pratica di massa del selfie, ripercorrendone la storia e gli antefatti: dai primi autoritratti di Raffaello e Picasso, alla concezione del volto come medium con riferimento alla performance di Marina Abramović del 2010, fino a suggerire l’idea di fotografia come illusione dell’immortalità (bloccando un istante, per l’eternità) e, in contrapposizione, quella della «negazione mitica di un’ansia di morte» (Barthes, 2003, p. 33). La fotografia è in grado di «certificare ciò-che-è-stato, mostrando ciò-che-non-è-più».
Con la tecnologia la conversazione torna a essere asincrona, cosa si perde questa volta? La privacy, momenti di vita regalati al mondo.
Intelligenza artificiale e machine learning modificano il linguaggio umano?
«Le conversazioni sono l’essenza della nostra società. Rappresentano il modo in cui ci scambiamo le idee, un momento vitale nel processo cognitivo. Attraverso le conversazioni esploriamo i concetti e calibriamo e definiamo noi stessi, i ruoli, l’amicizia e l’amore», è quanto afferma Curtis. Le conversazioni sono essenziali per l’essere umano. Avvengono attraverso sms, WhatsApp, e-mail: nuove etichette che definiscono le conversazioni in flussi, in maniera asincrona, non più faccia a faccia ma a distanza sia fisica che temporale. Media conversazionali destinati a scomparire in tempi ancora più brevi di quanto non stia avvenendo per i telegrammi, dopo centosessant’anni, o per i telefoni, dopo centoquaranta.
Stiamo assistendo a un nuovo e ulteriore cambiamento che può essere ricondotto principalmente a tre cause: il declino delle chiamate telefoniche, la nuova frontiera del design e dell’interazione con lo sviluppo di interfacce vocali (voice UI), la nascita dei chatbot. Nonostante il declino delle chiamate telefoniche, la voce di per sé rimane uno strumento potente e non perde il suo ruolo fondamentale nella nostra comunicazione. Sono continui gli studi per migliorare l’interazione tra la voce umana e i comandi vocali che utilizziamo per parlare con le applicazioni e che sempre più useremo per comunicare con assistenti vocali, come Siri o Alexa, e oggetti dotati di intelligenza artificiale.
Mark Curtis durante l’incontro Meet The Media Guru.
Inoltre attraverso la voce non si svolgerà solo la comunicazione tra noi e gli elettrodomestici, quindi tra umani e robot, ma tra robot e robot. Si andrà via via verso quella che Curtis definisce “singolarità delle conversazioni”: la conversazione sarà sempre disponibile, non più legata ai singoli dispositivi, che scompariranno. Comunicheremo tra di noi e con gli oggetti, in maniera sempre più naturale, sfruttando la voce, l’intelligenza artificiale e la digitalizzazione. Non esisteranno confini tra conversazione umana e AI. Ma non è tutto. In futuro sarà possibile comunicare anche senza voce, trasformando i pensieri in conversazione attraverso un’interfaccia neurale, come avviene già in bioingegneria medica e neuroingegneria per le persone affette da disabilità, le quali si avvalgono di interfacce neurali per comunicare o comandare il movimento della sedia a rotelle.
Cosa faranno le brand?
Secondo Curtis le interazioni tra brand e consumatori avverranno sempre più attraverso bot dotati di intelligenza artificiale. I quali, però, durante una conversazione non riescono ancora a comprendere il contesto o a tener conto di determinati registri linguistici, entrambe abilità umane che i software non sono in grado di replicare in questo momento.
Se «i mercati sono conversazioni», le brand potranno e dovranno continuare ad ascoltare queste conversazioni. Affinché si crei differenziazione tra le varie brand e si cambi identità in base al prosumer, è opportuno riflettere su come rendere le “brand viventi”, più vicine a noi: «ogni brand sarà un po’ come te», suggerisce Curtis.
Cosa faremo noi?
Tutto questo comporterà implicazioni bizzarre: i robot saranno in grado di conoscere alcune parti del nostro essere meglio di qualunque altro umano.
Mark Curtis durante l’incontro Meet The Media Guru.
Mark Curtis ha concluso il suo intervento al Palazzo della Regione Lombardia, ricordandoci che l’uomo ha un bisogno basilare di comunicare e di provare dei sentimenti. I robot, in quanto tali, non potranno scegliere di amare, lo faranno se verrà richiesto loro ma non ne avranno la facoltà: i robot potranno simulare, ma l’empatia e l’amore rimarranno propri degli esseri umani.