No all’oggetto-feticcio, sì al design come gesto di responsabilità. Riflessioni a margine dell’intervento milanese di Corey Timpson a Meet the Media Guru.
A che cosa serve il design? L’incontro con Corey Timpson a Meet the Media Guru (Milano, 16 maggio 2018) è l’occasione per una riflessione non estemporanea. Riflessione da fare proprio qui, a Milano: la città che ogni anno, in occasione del Salone del Mobile, celebra sé stessa come protagonista mondiale del design e capitale della creatività.
Il lavoro di Corey Timpson (Winnipeg, Canada) si muove intorno al concetto di design inclusivo. È centrale, in questo approccio, l’idea che le cose vadano progettate tenendo conto fin dall’inizio di tutti i fattori che determinano differenze di percezione, lettura e utilizzo. Non si tratta, banalmente, di progettare interfacce accessibili. Perché l’inclusione si realizza anche a livello sensoriale ed emotivo. Non basta, cioè, che tutti possano accedere a uno spazio o fruire di un oggetto. Occorre che tutti possano sentirlo ed emozionarsi. Per questo il progetto deve essere multisensoriale.
Nessuno è così cieco da non sentire
Vale la pena di guardarsi le linee guida del design inclusivo e accessibile, pubblicate da Timpson sul sito del Canadian Museum of Human Rights di Winnipeg. Sì, perché da quasi vent’anni il designer candese declina la propria visione del design appunto nell’ambito museale, progettando ecosistemi narrativi multisensoriali. Timpson ha lavorato con oltre cinquanta istituzioni, principalmente in Canada e negli Stati Uniti. Del Canadian Museum of Human Rights è stato direttore prima, vice presidente poi.
Come consentire a un cieco, per esempio, di vedere la fotografia ad altissimo impatto emotivo di una donna che prega con le mani protese? Facendo appello ad altri sensi. Su questa possibilità ha lavorato Timpson con la mostra Sight Unseen: International Photography by Blind Artists, allestita a Winnipeg nel 2016. La collaborazione con lo studio 3DPhotoWorks ha permesso di esporre rendering tridimensionali delle foto, realizzate a loro volta da artisti non vedenti. I quali possono regalare, in modo inaspettato, uno sguardo alternativo sulla realtà sensibile. Si scopre così che il mondo visto da un cieco è pieno di dettagli inauditi.
Misurare l’impatto
Ma design inclusivo significa anche agire nella consapevolezza che la presenza di ciascuno nello spazio ha un impatto sugli altri. E che, quindi, pensare l’interazione fra oggetti e utenti vuol dire pensare l’interazione fra utenti e utenti.
Il design inclusivo è design responsabile. Timpson parla di «storytelling responsibility», ossia della responsabilità che nasce nel momento in cui si progettano spazi, contesti di fruizione, servizi e si determinano in tal modo le possibilità di accesso alle risorse per tutti gli utenti. Ecco quindi il lavoro sull’esperienza, che deve essere interattiva, estesa nello spazio e prolungata nel tempo. Ma anche sui concetti di reciprocità, dimensione dialogica, rapporti di causa-effetto, immersività e rilevanza (personalizzazione e collaborazione).
Quella di Timpson è una lezione per la cultura del design industriale, che rischia di fare dell’oggetto un feticcio. Milano, capitale indiscussa del design, è talvolta disattenta nei confronti di questo tipo di messaggio. Siamo circondati da oggetti in posa, narcisisti e autoreferenziali. E ci dimentichiamo della responsabilità di chi progetta.