Intelligenti e creativi, non sono più solo gli esseri umani. Arte 2.0: una nuova generazione di artisti, dotati di intelligenza artificiale e capacità creativa.

Siamo circondati da intelligenze, artificiali.

Dal 1997 è inutile sfidare a scacchi un’AI; dieci anni dopo, infatti, l’essere dotato di intelligenza umana si fa battere ancora da un’intelligenza artificiale, debole. Debole perché in realtà l’algoritmo mira semplicemente a risolvere un problema, non è cosciente di sé. Da ottobre Sophia è in grado di conversare in maniera ironica con linguaggio non automatico, di giocare – e vincere – a morra cinese con un giocatore in carne e ossa. Una donna-robot che sorride, si emoziona, cambia espressione facciale, reagisce in tempo reale interpretando le emozioni umane, lancia perfino frecciatine a Elon Musk. Sophia è la prima robot al mondo ad avere ottenuto la cittadinanza in Arabia Saudita, come un essere umano.

Ma se è vero che l’uomo è un essere creativo e che «la creatività non è altro che un’intelligenza che si diverte» (Albert Einstein), possiamo desumere che anche un robot, oltre a essere intelligente, possa essere creativo. Un’affermazione del genere potrebbe essere rubricata come un ossimoro. Un robot non è programmato per compiere semplicemente un’azione? Eppure tale ossimoro prenderebbe il nome di creatività computazionale, un campo di ricerca scientifica multidisciplinare. E dunque, la creatività non è, da sempre, il luogo per esprimere sé stessi e promuovere la propria originalità, attraverso le più disparate forme artistiche? Tutto vero. Come è vero che, ormai già da quarant’anni, esistono robot in grado di produrre opere d’arte alla maniera degli esseri umani. Robot in grado di scrivere storie e sceneggiature di film, comporre brani musicali e mettere insieme un musical, disegnare e colorare. Proprio come noi. Robot dotati di intelligenza artificiale e capacità creativa. O quasi.

Artista, è un modo di essere

Un’opera d’arte, da sempre, è considerata frutto dell’ingegno umano. Etichettare un’opera, creata da un’intelligenza artificiale, come opera d’arte potrebbe risultare scomodo, fastidioso, eticamente incorretto per chi si occupa di arte quotidianamente, e non solo. Fare l’artista può essere una scelta. Ma alla base la questione indiscutibile è il talento. Il talento è innato. Si può scegliere se coltivarlo o rifiutarlo, ma non si può decidere di possederlo o meno. Se l’espressione “fare l’artista” fa riferimento a un atteggiamento o un’attitudine, al contrario siamo soliti dire “è un artista” quando vogliamo definire una persona non solo riferendoci a cosa fa nella sua vita, ma a cosa è.

E quindi, se l’opera in questione è creata da un’intelligenza artificiale, chi è considerato autore di quell’opera, la macchina che l’ha realizzata o l’uomo che ha istruito la macchina?

AI Creative AARON Harold Cohen

Una delle opere di AARON e dell’artista Harold Cohen (Fonte: Vimeo).

«If what AARON is making is not art, what is it exactly, and in what ways, other than its origin, does it differ from the ‘real thing?’ If it is not thinking, what exactly is it doing?» – Harold Cohen

La considerazione riportata qui sopra è di Harold Cohen, artista britannico che per quarant’anni ha fatto di Aaron – di intelligenza artificiale –, il suo fedele collaboratore. Aaron è nato nel 1968, noto al pubblico dal 1973, e nel corso degli anni si è evoluto fino ad arrivare a essere considerato un’intelligenza artificiale artistica autonoma. Secondo il suo ideatore, Aaron è in grado di colorare meglio di quanto sapeva fare lui, produrre una quantità illimitata di immagini creative e a una altissima velocità. Harold Cohen ha dichiarato in un’intervista: Aaron non finirà, quando io finirò. E così è. Ancora oggi, nonostante la scomparsa del suo creatore il 27 aprile 2016, Aaron è attivo. L’ultima mostra risale a febbraio 2017, una mostra alla University Art Gallery (UAG) del dipartimento di Visual Art della UC San Diego per ripercorrere i 40 anni di attività di Cohen e Aaron, dalle prime opere agli anni 2000.

Intervista all’artista Harold Cohen: “Collaborations with My Other Self” Gallery at Calit2, University of California San Diego, 2011. (Fonte: Calit2ube).

Cos’è la creatività computazionale?

Gli uomini hanno iniziato a definirsi creativi solo a partire dagli anni Cinquanta. Prima, più che altro, ci si poteva definire inventori, innovatori, geni. Non creativi. E se la creatività rimanda alla creazione e se il mondo è un processo ininterrotto di creazione continua, nel quale tutti siamo coinvolti (come sosteneva Ralph Waldo Emerson), perché un’opera nuova creata da un’intelligenza artificiale non può essere definita creativa? L’intelligenza artificiale non ha, in questo senso, creato qualcosa che prima non c’era? Quell’intelligenza artificiale è riuscita ad apprendere, così come fa l’uomo. Certo, tra le obiezioni si potrebbe argomentare che dietro quel risultato ci sono istruzioni umane, senza le quali una macchina non sarebbe in grado di apprendere autonomamente. Gli uomini apprendono dagli altri uomini, imitano e fanno esperienza. Può una macchina apprendere o creare in base a quanto precedentemente creato o appreso da un’altra macchina, suo simile?

Uno degli obiettivi della creatività computazionale è l’estensione della creatività umana. Nell’esempio di Aaron, in parte, così è stato. L’intelligenza artificiale è riuscita ad andare oltre la capacità creativa del suo ideatore: Cohen rimase sbalordito dall’originalità delle creazioni del suo alter ego dotato di intelligenza artificiale – il “my other self”, com’era solito definirlo –. Aaron è riuscito infatti a creare figure astratte e oggetti di vita reale, riprodurre persone che l’artista stesso non aveva mai visto. In questo senso possiamo dire che un secondo obiettivo della creatività computazionale è stato raggiunto: Cohen ha progettato un’intelligenza artificiale in grado di produrre un livello di creatività paragonabile a quella umana.

Google DeepDream: immagini psichedeliche e surreali di una mente artificiale

Aaron non è l’unico esempio di intelligenza artificiale in grado di produrre opere d’arte. Ovviamente. DeepDream è un esempio di rete neurale convoluzionale che prende in input un’immagine esistente – Simone Scardapane, co-organizzatore del primo ML Meetup a Roma, la definisce «una rete neurale già allenata» – e la trasforma sfruttando il pattern dell’immagine stessa, quindi la sua struttura ripetitiva, fino a produrre un’immagine completamente diversa da quella iniziale, distorta, vagamente onirica e allucinogena. La rete convoluzionale, è una rete artificiale di tipo feed-forward: a differenza di una rete neurale artificiale ricorrente, le connessioni fra le varie unità non formano cicli ma informazioni unidirezionali.

Una immagine molto onirica

Immagine creata con DeepDream.

Nato nel 2014, DeepDream – il cui codice è oggi open source – permette di produrre forme che richiamano un’illusione subcosciente attraverso la quale tendiamo a riconoscere nelle forme prodotte volti o oggetti noti, in maniera istintiva e del tutto automatica. È l’illusione pareidolitica o pareidolia.

Nello scorso anno due opere create con DeepDream sono state vendute per 8.000 dollari. A questo punto, la paternità dell’opera a chi deve essere riconosciuta? In questo caso agli artisti umani che hanno generato le immagini: secondo quanto riportato da Robert Hart in un suo articolo su Quarz, anche avvocati e docenti di materie giuridiche non credono si possa riconoscere come autore un’intelligenza artificiale. Eran Kahana, avvocato specializzato in diritto della proprietà intellettuale a Maslon LLP e assistente con incarico di insegnamento alla Stanford Law School, ha sottolineato che la legge sulla proprietà intellettuale nasce per impedire a persone diverse dal creatore di un’opera, di utilizzarla per scopi di lucro. In modo da permettere al solo autore di trarne giovamento. Un’intelligenza artificiale non ha – ancora – queste esigenze.

I robot sono nati per aiutare o sostituire l’uomo nello svolgimento di compiti ripetitivi e pesanti. Cosa ne sarà dell’intelligenza umana quando quella artificiale avrà le capacità per sostituirla anche nello svolgimento di tutte quelle azioni in cui, solitamente, è richiesta la creatività dell’essere umano? Quale sarà l’elemento che differenzierà l’uomo da un umanoide? Secondo Jürgen Schmidhuber, considerato il padre della moderna intelligenza artificiale, l’uomo sarà sempre in grado di reinventarsi e trovare come interagire con i suoi simili, così come stiamo già facendo. In un’intervista di Gerhard Lob, Schmidhuber dichiara infatti che molte delle professioni svolte in questi anni potrebbero essere considerate non essenziali alla sopravvivenza della specie. Così come sappiamo già che le macchine sono in grado di correre molto più velocemente degli uomini, ma ciò nonostante ci emozioniamo ancora quando Usain Bolt e altri campioni sono riconosciuti in tutto il mondo perché corrono più veloce degli altri.

La sfida, dunque, rimarrà sempre tra gli uomini.

(Immagine in evidenza creata con: InstaPainting).