Lo scandalo di Cambridge Analytica è ancora caldo è il regolamento europeo sulla protezione dei dati personali (GDPR) è alle porte. Ma Facebook, Google & C. continuano ad andare alla grande. I dati delle trimestrali e il valore percepito dagli utenti.

All’indomani del caso Cambridge Analytica non pochi si sono affrettati a presagire il declino di Facebook e delle altre società che prosperano sull’accumulazione dei dati personali dei loro utenti. «Nulla sarà più come prima» è stato scritto. O addirittura: «Facebook al capolinea», «È iniziata la fuga da Facebook» e via drammatizzando. Sullo sfondo, l’imminente applicazione del GDPR, il regolamento dell’Unione europea sulla protezione dei dati personali. Il quale, secondo alcuni, sta già togliendo il sonno a Mark Zuckerberg, Sundar Pichai e Jeff Bezos.

Techlash e GDPR

È il grande techlash, s’è detto. Lo ha scritto per primo l’Economist in un editoriale del gennaio scorso in cui, con ironia molto British, si preconizza la fine della luna di miele fra la Silicon Valley e i governi di mezzo mondo. Poi è arrivato il mea culpa del fondatore di Facebook davanti al congresso americano, si è detto che qualche nuova regolamentazione sarà necessaria e tutto è tornato più o meno come prima. Certo, il 25 maggio il GDPR entrerà in vigore in tutta l’Unione europea. Ma siamo sicuri che il nuovo quadro normativo metterà davvero in difficoltà i giganti del web? Secondo il New York Times è semmai vero il contrario: la severa regolamentazione europea aiuterà gli operatori storici. Il costo per ottenere dagli utenti il permesso all’utilizzo dei dati personali si rivelerà infatti molto più elevato per un’impresa giovane che per un’impresa già affermata.

La verità è che, in questa fase storica, ci sono due forze più veloci di ogni regolamentazione: la tecnologia da un lato e il bisogno di gratificazione narcisistica degli utenti online dall’altro. L’una e l’altra forza lavorano a favore dei big del web. I consumatori non sembrano disposti a rinunciare ai cosiddetti free digital goods offerti da Google, Facebook e Amazon. Anzi, sono desiderosi di usufruire dei nuovi servizi che l’evoluzione tecnologica renderà disponibili in futuro.

Il valore percepito dei servizi online

Colpiscono, in questo senso, i risultati dell’indagine Using Massive Online Choice Experiments to Measure Changes in Well-being, realizzata da Erik Brynjolfsson, Avi Gannamaneni e Felix Eggers per conto di MIT Initiative on Digital Economy. Lo studio si basa sul metodo della classificazione contingente (choice experiment) ed è stato condotto su un campione massivo di utenti online. A tale campione è stato chiesto di esprimere le proprie preferenze, scegliendo tra diverse alternative di beni e valori economici. Gli intervistati hanno dichiarato che, pur di non rinunciare all’accesso ai motori di ricerca, accetterebbero di diminuire il proprio reddito annuo di 17 mila dollari. Analogamente, per continuare a usare la posta elettronica sarebbero disposti a un sacrificio di oltre 8 mila dollari. Più limitato il costo-opportunità dei social media (322 dollari), ma in netta crescita rispetto a un anno prima.

Trimestrali da sogno per Facebook, Alphabet e Amazon

Ecco dunque, a smentire i profeti di sventura, gli eccellenti risultati della prima trimestrale 2018 di Facebook. Una trimestrale su cui Russiagate, data breach verso Cambridge Analytica e questione delle fake news non hanno lasciato traccia. Nei primi tre mesi dell’anno gli utili della società di Zuckerberg hanno toccato i 4,99 miliardi di dollari (1,69 dollari per azione, contro gli 1,35 preventivati e gli 1,04 di un anno prima). In crescita del 50% anche la raccolta pubblicitaria (11,8 miliardi di dollari) e il numero di utenti. Grazie ai 70 milioni di nuovi arrivi, la popolazione di Facebook conta oggi 2,2 miliardi di iscritti.

Bilancio sopra le attese anche per Alphabet, con profitti nel primo trimestre del 2018 in crescita del 73% a 9,4 miliardi di dollari. Si tratta della prestazione migliore dalla fine del 2009. Bene anche i ricavi: 31,15 miliardi di dollari, in aumento del 26% rispetto allo stesso periodo del 2017 e superiori ai 30,29 miliardi preventivati dalla società. La raccolta pubblicitaria – business trainante di Alphabet – è cresciuta del 24% a 26,64 miliardi di dollari.

Infine, anche Amazon ha cominciato il 2018 alla grande. Il primo trimestre si è chiuso con ricavi per 51,04 miliardi di dollari: migliore risultato degli ultimi cinque anni. L’aumento è del 43% rispetto ai 35,71 miliardi del primo trimestre dell’esercizio 2017. In netta crescita anche gli utili per azione, pari a 3,27 dollari. Significativa la performance della divisione AWS (servizi cloud): le entrate sono cresciute del 49% a 5,44 miliardi di dollari, mentre i profitti operativi hanno segnato un progresso del 57% a 1,4 miliardi di dollari.

Che cosa cambia, dunque?

Tutto come prima, insomma. O quasi. In realtà qualche cosa cambierà o forse sta già cambiando, nel comportamento delle big del web. A parte l’adeguamento al nuovo quadro imposto dal GDPR (che è comunque un fatto), la questione vera è stata posta con la consueta lucidità da Vincenzo Cosenza in un post del 9 aprile scorso:

“l’errore di Zuckerberg è stato quello di aprire eccessivamente, fino al 2014, le API della piattaforma a sviluppatori indipendenti, che in alcuni casi hanno abusato di questa possibilità, arrivando a costruire profili da usare per finalità di marketing (anche politico), non consentiti dai termini di servizio.”

I cambiamenti, dunque, riguarderanno soprattutto questo aspetto. Facebook e Instagram stanno limitando l’accesso dei dati degli utenti agli sviluppatori di terze parti. E tali limitazioni saranno imposte a prescindere dal consenso degli utenti stessi.