La lecture di Luigi Ferrara sul design e il suo futuro a Meet the Media Guru. Progettazione condivisa e mediazione sociale. Per un’economia della saggezza.

Il design del XXI secolo ha una missione: creare la nuova economia della saggezza attraverso pratiche di progettazione collaborative. È il messaggio con cui Luigi Ferrara, preside del Centre for Arts, Design & Information Technology presso il George Brown College di Toronto, si è congedato ieri sera da Milano, dopo avere coordinato per una settimana la scuola d’estate Future Ways of Living.

Una escursione vertiginosa, senza confini intellettuali, quella compiuta ieri da Ferrara davanti al pubblico del Museo della Scienza e della Tecnologia di Milano. Un viaggio da vero umanista attraverso le sfide del design, della società e della politica. E allo stesso tempo un messaggio d’amore per Milano e l’Italia: il miracolo di un futuro progettato insieme è possibile.

Bello che tutto questo sia capitato in uno dei luoghi-simbolo dell’eredità leonardesca. Perché, forse, è proprio da Leonardo Da Vinci che occorre ripartire.

Expo, il prossimo Duomo

Per Ferrara il nuovo miracolo a Milano assomiglia a quello che si realizzò con il progetto del Duomo. Se la Fabbrica del Duomo, cantiere aperto da oltre 600 anni, è il simbolo dell’impegno collettivo di una città per il proprio patrimonio culturale e spirituale, il sito di Expo 2015 può essere il prossimo Duomo, il nuovo progetto condiviso di Milano. Dagli studenti della scuola d’estate Future Ways of Living, promossa da Meet the Media Guru, Institute Without Boundaries di Toronto e La Triennale di Milano, in collaborazione con il Politecnico di Milano, è stata elaborata una visione del sito fondata su un uso della tecnologia responsabile e sostenibile. I progetti sono visibili in questi giorni a Cascina Triulza e restano ai milanesi come stimolo ad aprire un nuovo cantiere. L’obiettivo, suggerisce Ferrara, è fare del sito di Expo un villaggio globale, magari attraverso un piano di azionariato popolare. Che cosa accadrebbe se ogni milanese comprasse un titolo dell’area e diventasse attore di una nuova esperienza di progettazione condivisa?

Forse è solo una provocazione. O forse no. In fondo nel 1952 Milano acquistò la Pietà Rondinini di Michelangelo, oggi esposta al Castello Sforzesco, proprio grazie a una sottoscrizione popolare lanciata dal sindaco di allora, Virgilio Ferrari. E anche la linea uno della metropolitana fu realizzata, fra il ’57 e il ’64, senza contributi statali tramite un prestito obbligazionario cui i cittadini aderirono in massa.

Economia della saggezza

Dietro la provocazione c’è una nuova idea del design e del suo ruolo. Nel XX secolo fare design ha voluto dire progettare per conto delle persone, oggi non può che significare progettare con le persone. Nel futuro – dice Ferrara – dovremo progettare insieme.

A imporre un cambiamento sono le discontinuità fra XX e XXI secolo. Lo scenario contemporaneo è caratterizzato da incertezza, crisi dei modelli finanziari, nuovi conflitti sociali, guerre, problemi ambientali. Insomma: un alto livello di complessità. Ecco perché occorre progettare insieme, mettere insieme chi è capace di fare analisi con chi è capace di creare. Le soluzioni non si trovano più nella creatività individuale, ma nascono da processi condivisi. Il designer diventa mediatore sociale.

Il design è un linguaggio universale, perché le cose che facciamo insieme generano il senso del mondo in cui viviamo e che condividiamo. Ma per Ferrara il design non può limitarsi a fornire simboli. Esso è chiamato a offrire soluzioni: “Dobbiamo progettare gli effetti. Non i prodotti, non gli ambienti, non i servizi, ma gli effetti”.

Si chiama solution design e ha una valenza squisitamente politica. Perché gli effetti di quello che facciamo non sono mai neutrali. “Oggi – osserva Ferrara – possiamo decidere se progettare gli effetti della divisione sociale e dell’esclusione, oppure gli effetti della cooperazione e dell’inclusione”. Il design, insomma, deve essere al servizio di una nuova economia della saggezza (“wisdom economy”). Vuol dire, in pratica, considerare la conoscenza condivisa come l’elemento chiave di un sistema di relazioni fra gli esseri umani che sia equo, sostenibile e in grado di produrre felicità. Ma, attenzione: la conoscenza diventa saggezza solo se è condivisa su larga scala. La knowledge economy – oggi lo sappiamo – non è sufficiente, perché si fonda su nuove concentrazioni, iniquità e forme di sfruttamento degli individui.

Design after design

Ma, in concreto, come deve essere il nuovo design? Ferrara ha fornito alcuni spunti, presentando anche esperienze realizzate in Canada e nel resto del mondo del 2010 a oggi.

La prima parola chiave è trasfigurazione. Abbandonare il XX secolo ha significato lasciarsi alle spalle l’epoca dell’astrazione, fondata sul linguaggio alfabetico, una conoscenza di tipo ideologico, una società individualista e una cultura di tipo scientifico, tecnologico e progettuale. Nell’epoca della trasfigurazione il linguaggio diventa binario, la conoscenza è di tipo cibernetico, la società tende a valorizzare la dimensione collaborativa e la cultura si fonda sulla dinamica visualizzazione-simulazione-interazione.

Il design è al centro di questa trasformazione. Esso è chiamato a identificare le opportunità attraverso un processo che parte dalla visualizzazione precoce della soluzione (“ti faccio federe subito ciò che ho in mente”), procede attraverso la prototipizzazione rapida dell’idea, o fast prototyping (“ti faccio toccare subito con mano ciò che ho in mente”) e l’interazione con tutti i soggetti portatori di interessi (“mi confronto con te in ogni fase del progetto”).

Approccio agile e cultura digitale

Qui il riferimento è al paradigma agile, che nasce nell’ambito della progettazione software: comunicazione trasparente, confronto continuo, procedimento iterativo per prove ed errori (Spindox fa del metodo agile uno dei suoi modelli di riferimento). In questo senso il mondo dell’ICT può fornire al design non solo una cornice concettuale e un insieme di metafore potenti, ma anche strumenti ed esperienze concrete.

D’altra parte la cultura del nuovo design non può che essere digitale. L’idea stessa di economia della saggezza implica la capacità di governare con un approccio adattivo l’esplosione dei dati in circolazione, la complessità delle organizzazioni, la diversità dei sistemi, la velocità dei fenomeni. Serve un nuovo tipo di intelligenza. La grande sfida, in questo senso, consiste nel trovare un punto di equilibrio fra il ruolo delle macchine (intelligenza artificiale) e quello degli esseri umani.

Ma il digitale è anche in relazione dialettica con il fisico. Non perché si debba necessariamente assistere alla virtualizzazione di ogni esperienza, come preconizza qualche apocalittico. In futuro – dice Ferrara – il design partirà dai materiali, con l’obiettivo di dematerializzarli e rimaterializzarli. Il materiale – inteso come oggetto fisico, realizzato e utilizzabile – non sarà più il punto di arrivo della progettazione, ma il punto di partenza.

Altra parola chiave del nuovo design è scalabilità. Fino a oggi il design ha operato al servizio di una produzione industriale essenzialmente fondata sull’economia di scala. Industrializzare significava rendere efficiente la produzione su vasta scala dei manufatti progettati. Domani si industrializzeranno le nicchie (si veda il modello produttivo della Local Motors, di cui abbiamo parlato qui). L’efficienza si misurerà sulle piccole serie. Chiosa Ferrara: “Siamo nati nell’abbondanza. Se non vogliamo morire di abbondanza, dobbiamo abbracciare la scalabilità”.

Ecologia e innovazione

La terza parola chiave è ecologia. “L’innovazione non si realizza, se non in un ecosistema”, ammonisce Ferrara. Porre il focus dell’innovazione sulla dimensione ecologica non vuol dire, banalmente, essere green. Significa semmai pensare l’innovazione in termini di sistema, ossia di interazione fra tutte le dimensioni del sistema stesso: sociale, progettuale, tecnica, economica e politica. L’ecologia dell’innovazione tenta di rispondere a una serie di domande fra loro correlate. Come vogliamo vivere (virtualizzazione)? In che modo possiamo realizzare il nostro disegno (visualizzazione)? Come lo concretizziamo (replicabilità)? Come lo proponiamo agli altri (propagazione)? Come lo legittimiamo (istituzionalizzazione)?

Sullo sfondo, ma neppure troppo, il tema dell’educazione. L’arte della saggezza non è innata. Essa si promuove e trasmette nei contesti educativi, i quali costituiscono il cuore della nuova economia. “La cosa più importante al mondo – dice Ferrara – è l’educazione pubblica. E lo sarà sempre di più”.

A un approccio sistemico e sostenibile si sono ispirati, con il lavoro di questi giorni, gli studenti della scuola d’estate di Future Ways of Living. Partendo dallo stato dell’arte, ossia l’area di Expo 2015 così come si presenta oggi, e dal progetto svolto lo scorso anno a Milano da altri studenti, sempre con la collaborazione di Institute without Boundaries.

Eventualization

Sessanta persone di venti paesi hanno lavorato, secondo la tecnica di progettazione dinamica della Charrette, intorno a cinque aree problematiche: 1) trasparenza e privacy, 2) intelligenza artificiale, 3) differenza e coesione, 4) valori e tradizioni, 5) democrazia e libertà. “Il sito di Expo è una rappresentazione perfetta di tutti i problemi della globalizzazione”, osserva Ferrara. “Connesso con il mondo, ma circondato da mura, fossati e filo spinato. Possiamo immaginare di trasformarlo in un villaggio globale, materializzando la metafora di Marshall McLuhan?”

Sì, risponde lo stesso Ferrara. Ma a due condizioni. La prima è riuscire a “portare tutti dentro la storia”. Ferrara usa il termine inglese eventualization (dal verbo to eventualize, “materializzare qualcosa, portarla a esistere”). La seconda condizione è non avere paura delle differenze, ma riconoscere che esse sono il capitale più prezioso. Perché nel villaggio globale che ha in mente Ferrara “diverso è meglio che perfetto”. E forse avere consapevolezza di ciò è la vera saggezza.