Spindox è impegnata nell’Internet of things. I primi progetti sono stati un successo, ma Spindox Labs non aspetta: è già piena di idee per il futuro. Come ci raccontano Roberto e Cristiano.
Cristiano: “Internet of Things, l’Internet delle cose, vuol dire avere oggetti che sono interconnessi tra loro e col mondo che li circonda. Questi oggetti sono dotati di una certa intelligenza che permette loro di inviare dati a un sistema con l’obiettivo di produrre un certo risultato. L’IoT si può usare banalmente per produrre report o alert in modo automatico, ma anche per gestire sistemi molto complessi. È un mercato in grossa espansione. Si prevede che entro il 2020 ci saranno più di 25 miliardi di oggetti interconnessi tra loro.”
Cosa cambia dalla vecchia automazione?
Cristiano: “Molto, perché le tecnologie si sono portate avanti. Adesso i sensori dialogano tra di loro in modalità wireless, quindi non c’è più bisogno di creare reti cablate, e per alimentarli abbiamo batterie che durano due o tre anni. I dati poi non sono più centralizzati in un’azienda, ma restano disponibili sulla rete in ogni momento, grazie al cloud.
Anche l’abbassamento dei costi ha contribuito tanto. Una volta solo poche tipologie di mercati si potevano permettere un sensore, mentre ora è disponibile per tutti, dai privati alle pubbliche amministrazioni.”
In pratica, per mettere su un sistema IoT, di cosa c’è bisogno?
Cristiano: “Prima di tutto bisogna capire che tipologia di evento si vuole mappare. In base a quello si sceglie l’hardware più adatto a raccogliere i dati che interessano. Per esempio fotosensori e fotocellule individuano variazioni di luce, i beacon invece permettono di individuare altri dispositivi presenti in un dato spazio inviando segnali bluetooth. Oppure ancora si possono usare i lettori, ossia sensori che registrano gli altri sensori presenti all’interno di uno spazio – come il telepass, che segnala quando passi attraverso il varco.”
Poi?
Cristiano: “Poi, una volta installati, i sensori vanno organizzati in una rete che invia tutti i dati a un sistema cloud, che li storicizza in database, SQL o NoSQL. Da lì si passa a quello che potremmo definire middleware: software o dashboard create ad hoc che permettono all’utente finale di visionare e analizzare i dati raccolti.
Oggi ci sono provider che mettono a disposizione veri e propri hub, architetture già predisposte per l’IoT che permettono di accogliere, recuperare, storicizzare, manipolare, una grande mole di dati.”
Roberto, passiamo a te. Di cosa ti occupi e come sei arrivato all’Internet of things?
Roberto: “Sono sviluppatore front-end e back-end. In Spindox ho fatto soprattutto sviluppo front-end per il settore bancario, da poco ho finito di lavorare su un progetto di sviluppo per Deutsche Bank utilizzando Angular. In passato ho fatto parte del team che ha realizzato la funzione della app di Unicredit che permette di aprire un conto via mobile. Ne siamo orgogliosi, ci ha fatto vincere vari premi. Nel frattempo ho voluto approfondire varie altre cose. Così, tra un progetto e l’altro, mi è stato permesso di dedicarmi anche all’IoT.”
Sei passato dalla programmazione pura, alla creazione di un oggetto concreto, materiale. È un salto grande o non cambia molto?
Roberto: “Non cambia molto, l’unica differenza vera è che ti devi interfacciare con cose diverse. Se prima lavoravo solo sul mio computer e vedevo e sviluppavo tutto da lì, poi ho dovuto imparare a connettere altri dispositivi tra loro. Una volta stabiliti i collegamenti, i dispositivi riescono a comunicare e tutto torna ad essere come prima.”
Raccontaci dei progetti che hai seguito.
Roberto: “Ho partecipato a tre progetti di IoT per Spindox, il primo è stato Hack’n’Roll. Mi sono occupato di organizzare l’infrastruttura tecnologica necessaria perché i partecipanti potessero realizzare i loro progetti. Per prepararci ci siamo divertiti a fare esperimenti con i Raspberry – i computer dati in dotazione ai concorrenti – collegandoci schermi touch, fotocamere, sensori…
Dopo aver acquisito questo primo know-how, è arrivato un nuovo progetto: Convivio, di cui Spindox è stata partner tecnologico. Per l’evento abbiamo installato lettori di QR code, che venivano usati dai visitatori per verificare se avevano vinto o meno un premio.”
Quanto tempo ci avete messo per farlo?
Roberto: “Ci abbiamo messo veramente poco. Per fare sviluppo front-end, back-end, analisi, grafica, tutto incluso – tre settimane.”
E l’ultimo progetto?
Roberto: “Si tratta di un PoC, un proof of concept, piuttosto complesso che stiamo realizzando per un’importante casa automobilitstica. Oltre al semplice IoT – il Raspberry e nuovi sensori – si aggiunge il cloud. Il nostro obiettivo è individuare quando i bracci robotici di una linea di montaggio hanno bisogno di manutenzione, monitorando quando non stanno seguendo le traiettorie di movimento per cui sono stati programmati. Se non sono corrette, arriva una segnalazione di errore su una dashboard online o tramite app mobile.
L’idea è di cambiare il punto di vista della manutenzione: i guasti gravi sono prevenuti bloccando automaticamente il robot ai primi segni di malfunzione. È molto stimolante, mi sento fortunato a poterne far parte, è davvero al confine con l’innovazione!”
Cristiano, parlando di innovazione e IoT, cosa ci puoi dire?
Cristiano: “Abbiamo molte idee a Spindox Labs su come applicare l’Internet of things.
Come ha anticipato Roberto, stiamo lavorando all’IoT applicato al settore industriale per abbattere i costi causati dai guasti, riducendo i tempi di riparazione.
Vogliamo usare i sensori anche per raccogliere dati e perfezionare il retail, dai negozi ai supermercati. Gli strumenti ci sono: RFID, beacon, tecnologie wireless. È possibile anche abbinare vare tipologie di sensori, realizzando la cosiddetta sensor fusion, in modo da monitorare più parametri e avere un’analisi più completa dell’ambiente che si vuole tenere sotto controllo.
Nel retail le ragioni di business sono numerose. Per il marketing è utilissimo capire il comportamento delle persone, in modo da modificare di conseguenza i percorsi che sono stati predisposti. In ambito logistico permette invece di prevenire furti in magazzino o di evitare perdite durante il trasporto. Tracciando ogni singolo pezzo che parte e che viaggia, via terra, mare o aria, si può sapere esattamente dove – e magari scoprire perché – si è perso qualcosa.
Poi c’è l’ambito wearable, cioè quello dei sensori inseriti all’interno di capi di vestiario. Stiamo lavorando su sensori montati all’interno di calzature, che permettono di monitorare parametri fisici attraverso una app mobile. Si potrebbe applicare in cantieri edili, miniere, raffinerie, aziende chimiche, acciaierie, tutte zone ad alto rischio dove è utile controllare la posizione di ogni singolo dipendente per salvaguardarne l’incolumità.
Oppure ancora immaginiamo di applicare i sensori alla gestione dell’illuminazione stradale, dei semafori, del traffico cittadino. Vogliamo realizzare la Smart City. Stiamo lavorando a un software in grado di ricevere ed elaborare grandi quantità di dati da fonti eterogenee. Il test lo faremo raccogliendo i dati dei veicoli che attraversano un incrocio, nella prospettiva di applicare questo sistema a un’intera città.”
Grazie, ora sto andando in overdose da idee. Roberto, passiamo a qualche domanda un po’ più personale: cosa hai fatto prima di entrare in Spindox?
Roberto: “Prima lavoravo come sviluppatore back-end, ma la sera e durante i fine settimana sviluppavo – quasi per gioco – applicazioni mobile. Ho realizzato anche un progetto abbastanza complesso con alcuni miei ex colleghi dell’università, un’esperienza molto utile. Seguire un progetto concreto dall’inizio alla fine insegna davvero tantissimo.
E il percorso di studi?
Roberto: “Fin dall’inizio degli studi superiori avevo capito che mi piaceva il mondo dell’informatica. I miei genitori hanno provato a farmi fare il classico, ma dopo un anno sono riuscito a passare all’industriale informatico.
E poi: triennale in ingegneria informatica all’Università del Salento – con Erasmus in Spagna – e specialistica al Politecnico di Milano – con permanenza in Brasile.”
Ah però, non ti sei fatto mancare niente!
Roberto: “La voglia di viaggiare era tanta. Per assicurarmi di partecipare al progetto extra-UE in Brasile sono stato tre mesi in Inghilterra a perfezionare l’inglese.
A proposito, la tesi di laurea della triennale è stata la prima occasione in cui mi sono avvicinato all’automazione: avevo programmato un piccolo robot dotato di ruote con il mio computer, mostrandone il funzionamento durante la discussione. Per la specialistica invece mi sono laureato realizzando un’applicazione in nativo, un gioco per iPhone in linguaggio Objective-C.”
Hai qualche suggerimento da dare a chi vuole iniziare a occuparsi di sviluppo, magari proprio nell’Internet of things?
Roberto: “Un suggerimento generale è che tutte le cose che si leggono all’università si capiscono veramente solo quando si applicano fuori, professionalmente. In un anno di lavoro si impara molto di più che in un anno di università, quindi: non rifiutate mai voti e laureatevi prima possibile!
Poi a chi studia ingegneria informatica suggerisco di allargare la propria visione, magari dando qualche esame di ingegneria gestionale, come ho fatto io.
Il problema è che gli studi focalizzano troppo sui dettagli. Io all’università ho studiato solo lo sviluppo nativo, non mi ero mai posto il problema dello sviluppo multipiattaforma. Non mi interrogavo su quale tecnologia usare per sviluppare un progetto, conoscevo bene poche tecnologie e risolvevo tutto con quelle. Invece è importante saper scegliere cosa usare per ogni progetto, tenendo conto di costi e tempi di realizzazione.
Infine, per chi vuole fare pratica di IoT, è interessante sapere che online si possono acquistare schede elettroniche e single-board computer molto economici – come Arduino e Raspberry, per fare due nomi – ottimi per allenarsi a programmare.”