Cosa può fare la digital transformation per il settore culturale? Tantissimo: parola di Nancy Proctor. L’intervento a Meet the Media Guru.
Formazione umanistica e passione per le nuove tecnologie sono un binomio vincente per intuire e progettare la digital transformation, l’abbiamo sempre sostenuto. Nancy Proctor ne è l’ennesima dimostrazione. Dopo un percorso di studi in storia dell’arte culminato in un PhD, ha iniziato a lavorare nel mondo della comunicazione museale, sperimentandovi ogni nuovo mezzo di comunicazione degli ultimi venti anni, dai cd-rom al web, dai social network agli smartphone. Un’indole innovativa che l’ha portata a curare i canali di comunicazione digitale e mobile dei diciannove musei gestiti dalla Smithsonian Institution.
Ora, che si tratti di un museo, di una performance live o di qualunque altro tipo di evento culturale, l’obiettivo che un curatore deve perseguire è sempre lo stesso: aumentare il numero di fruitori. Ma perché? Questa domanda costituisce l’incipit delle riflessioni di Nancy.
Le risposte che Proctor ha dato, ospite di Meet the Media Guru, sono di due tipi. Da un lato – e qui emerge tutta l’americanità della donna – aumentare le visite significa aumentare le entrate, ossia avere maggiore disponibilità economica da investire per migliorare l’offerta. Dall’altro lato c’è una motivazione squisitamente esistenziale: dal momento che lo scopo dell’istituzione museo è non solo preservare e raccogliere la produzione culturale, ma anche trasmetterla, va da sé che tanto maggiore sarà il numero di persone a cui si trasmette, tanto meglio sarà soddisfatta questa ragion d’essere.
Il punto è che sotto entrambi gli aspetti le attività culturali sono in crisi. Nancy porta ad esempio il nostro paese, in cui si contano 5000 musei e 25000 luoghi di spettacolo, che sono però frequentati rispettivamente solo dal 30 e dal 20% della popolazione [dati Istat 2016].
Cifre del genere lasciano intendere che le iniziative culturali sono vissute da una ristretta cerchia di persone, spesso gli stessi esperti del settore. Una chiusura in sé stesso che non è sostenibile per il mondo dell’imprenditoria culturale.
È per rispondere a queste due necessità che Nancy Proctor ha fondato lo scorso anno la MuseWeb Foundation, un acceleratore di innovazione culturale che sostiene la diffusione di modelli virtuosi di business culturale.
L’idea della Proctor è che la digital transformation apre le porte a nuovi modi di fare cultura, di essere museo, poiché incoraggia una comunicazione bilaterale diretta che premia la genuinità. In ciò la Proctor si dichiara in piena sintonia con il pensiero alla base del concetto di new citizenship ideato da Jon Alexander: perché qualcuno si occupi di qualcosa deve sentirsene parte.
Questo hanno cercato di fare i due progetti di storytelling culturale realizzati da MuseWeb nel corso dell’ultimo anno. Il primo, Be Here: Baltimore, ha coinvolto i narratori di varie comunità della città di Baltimora, chiedendo loro di raccontare delle storie sulla cultura e l’arte locale. Il secondo Be Here: Main Street, in partnership con lo Smithsonian, riprende la stessa idea ma la applica alle piccole cittadine di provincia americane, incoraggiando l’emersione di storie ed identità locali, limitandosi ad offrire un’infrastruttura online e proponendo un tema da sviluppare.
La forza di entrambi i progetti è stata il un processo di co-creazione che hanno messo in atto, sovvertendo il modello classico di cura delle mostre. Se solitamente l’argomento approfondito è scelto per iniziativa di un gruppo di esperti, nei casi sopracitati le storie oggetto della mostra sono state invece scelte e raccontate dalle stesse persone che ne avrebbero usufruito in ultima istanza: le persone.