Quando parliamo di «dati» e di «fatti», rischiamo di non trovare un consenso su ciò che intendiamo. Nulla è più ambiguo dei dati. Quanto ai fatti, essi sono tutt’altro che autoevidenti. Forse quello che ci serve sono solide ragioni.
Com’è noto, il metodo delle fake news consiste nella sua essenza nel presentare opinioni, voci e falsità come se si trattasse di fatti.
In genere i nemici delle fake news proclamano la necessità di ripristinare una chiara distinzione tra fatti e opinioni. Essi ritengono che l’antidoto contro le fake news – ma c’è chi preferisce l’espressione information disorders («disturbi dell’informazione») – sia costituito da un’informazione fact-based («fondata sui fatti»). Il giornalismo, si dice, dovrebbe sempre fondarsi su un lavoro sistematico di fact- checking.
Hans Rosling, medico, consulente dell’UNICEF e cofondatore di Médecins Sans Frontières in Svezia, è persuaso che i fatti siano la risposta migliore al pessimismo imperante. Lo ha scritto nel bel libro Factfulness (Hodder & Stoughton, Londra, 2018). Un libro pieno di fatti incoraggianti, appunto.
Tutto giusto, ovviamente. Tuttavia…
Tuttavia, quando parliamo di «dati», di «fatti» o magari di «dati di fatto», quando cioè facciamo appello all’oggettività dell’informazione rettamente intesa, corriamo almeno due pericoli.
Il primo pericolo è di non trovare un consenso su ciò che in effetti intendiamo con l’espressione «fatti». Che cos’è un fatto? Come lo si riconosce? È chiaro che, in assenza di tale consenso, diventa più facile sostituire le opinioni ai fatti o magari proclamare l’esistenza di fatti alternativi. È questa, per dire, la strategia dell’amministrazione Trump per contrastare l’offensiva dei media liberal.
I fatti sono ostinati, ma non autoevidenti
In apparenza riconoscere un fatto è semplice. Come ebbe a dire John Adams, secondo presidente degli Stati Uniti d’America, «i fatti sono cose ostinate; quali che siano i nostri desideri, le nostre inclinazioni o i dettami della nostra passione, i fatti non possono alterare lo stato delle cose e delle prove».
Tuttavia, per distinguere un fatto da un’opinione, è necessario sviluppare ciò che chiamiamo pensiero critico. Occorre cioè esercitare la capacità di formulare giudizi attraverso procedure mentali complesse, basate sull’interpretazione dei fenomeni osservati, l’analisi, la valutazione e l’inferenza. Si tratta inoltre di un processo collaborativo, che presuppone un consenso da raggiungere attraverso la comunicazione.
Insomma, i fatti non sono autoevidenti. Sono riconoscibili come tali solo da chi dispone delle necessarie competenze.
Ora, senza volersi iscrivere al club degli apocalittici, non si può non osservare con un certo allarme l’allentamento della capacità di ragionare che sembra caratterizzare l’epoca contemporanea, la tendenza cioè a cadere sempre più spesso nelle trappole dei ragionamenti fallaci. Ne parla Ermanno Bencivenga nel bel saggio La scomparsa del pensiero. Perché non possiamo rinunciare a ragionare con la nostra testa (Feltrinelli, Milano, 2017). È un problema che va ben oltre il fenomeno dei social network e del quale il sistema educativo dovrebbe farsi carico.
Dati di fatto vs. stimolazione emotiva
Il secondo pericolo che corriamo è di trascurare una caratteristica essenziale della comunicazione di massa, e in particolare della comunicazione televisiva: la tendenza a ricercare un consenso con il pubblico sulla verità dei fatti al di fuori dei meccanismi del ragionamento critico.
La televisione – che, è bene ricordarlo, costituisce ancora il canale più potente di mobilitazione dell’opinione pubblica – non ci persuade facendo appello al nostra capacità di discernimento. Essa opera attraverso la stimolazione emotiva. A tale scopo si serve principalmente di tre ingredienti: immagini, parole-chiave e personaggi.
Ora, chi persegue l’obiettivo dell’audience, cioè intende massimizzare la quantità di pubblico che consuma un contenuto, sa bene che il pubblico preferisce la stimolazione emotiva al ragionamento basato sui fatti.
Anche nell’ambito del giornalismo più sorvegliato, quello che ha i suoi campioni celebrati nel New York Times, nell’Economist, nel Guardian e in altre testate in prevalenza anglosassoni, si registra qualche problema. Il mito di un’informazione «fair and balanced», in cui i fatti sono rigorosamente distinti dalle opinioni, è un po’ sbiadito. L’obiettività, cioè l’apparente assenza di opinioni, si dimostra spesso tutt’altro che onesta («fair», appunto).
Se i fatti sono separati dalle opinioni
Il modo migliore di rappresentare i fatti non è separarli dalle opinioni, ma giudicarli.
Ricordate lo scandalo delle e-mail spedite da Hillary Clinton con il suo account privato di posta elettronica, nel 2016? In quella occasione il New York Times fu accusato dai suoi stessi lettori di avere rappresentato tutte le posizioni del dibattito come altrettanto credibili, benché le prove fattuali fossero chiaramente a favore di Clinton. Scrisse allora Justin Peters su Slate: «Ogni articolo di giornale è la somma di un milione di piccoli giudizi, e la feticizzazione dell’”equilibrio” giornalistico […] è in gran parte un tentativo di nascondere quei giudizi ai lettori».
Non è la prima volta che la tradizione del giornalismo anglosassone si confronta con una critica simile. Tra gli anni sessanta e settanta del Novecento il movimento del New Journalism impose un modo diverso di informare e di raccontare la realtà circostante. Truman Capote, Norman Mailer, Joan Didion, Robert Christgau e Hunter S. Thompson furono i protagonisti di questa scuola, basata sulla ricerca di uno stile soggettivo e per nulla preoccupato dei cosiddetti «bilanciamenti».
La soggettività necessaria
Introducendo l’espediente letterario della testimonianza diretta, i «nuovi giornalisti» alla Capote puntavano a coinvolgere il lettore sul piano emotivo, attraverso la ricostruzione della realtà scena dopo scena, senza riferimento alle fonti. In tal senso uno dei capisaldi del giornalismo tradizionale risultava sconvolto. L’adozione di un approccio marcatamente diegetico portava il giornalista a descrivere non solo i fatti, ma anche le persone e le loro intenzioni, preferendo i dialoghi in forma indiretta. Il giornalista stesso doveva entrare nel plot come il personaggio di un romanzo, mediante l’uso della narrazione in terza persona e la tecnica del monologo interiore. In questo modo facevano irruzione nella scrittura giornalistica le motivazioni e i pensieri dell’autore, infrangendo un tabù del giornalismo tradizionale.
È bello ricordare le vicende del New Journalism proprio oggi, a pochi giorni dalla scomparsa di Tom Wolfe che ne fu uno dei massimi interpreti.

Dare i numeri o analizzare i dati?
Anche intorno al termine «dato» – più spesso declinato al plurale, «dati» – si consumano numerosi equivoci.
Nel suo libro Favole e numeri (Egea, Milano 2013), l’economista Alberto Bisin contrappone i dati, cioè i risultati delle analisi empiriche, alle favole e ai numeri. I dati si impongono per la loro oggettività, mentre favole e numeri sono ciò che si racconta a chi ci vuole credere, «senza sostegno alcuno nei dati». Per Bisin, per esempio, è una favola che l’acqua sia un bene pubblico e che quindi debba essere distribuita gratuitamente. Così come l’idea che in Italia non vi sia spazio per abbassare le tasse e tagliare la spesa pubblica, senza distruggere il sistema di protezioni e di servizi pubblici che il paese offre, nasce da un uso spregiudicato dei numeri, non supportato da alcun dato.
Senza entrare nel merito di questi e di altri esempi portati da Brusin, forse è necessario interrogarci più a fondo sulle prerogative dei dati e sulle promesse che essi formulano.
L’insostenibile ambiguità dei dati
Nulla è più ambiguo dei dati.
In primo luogo il dato, quanto più proclama la sua oggettività, tanto più rischia di piegarsi a obiettivi strumentali e di propaganda. Il dato lavora spesso al servizio della falsificazione dei dati di fatto. È lo stentoreo «vi do un dato!» di Matteo Salvini, reso famoso dalla parodia di Maurizio Crozza.
In secondo luogo il dato si porta dietro una dimensione irrimediabilmente soggettiva, per ragioni che la filosofia indaga da tempi non sospetti.
Ma procediamo con ordine.
Dati sensibili
Intanto, con il sostantivo «dato» possiamo intendere almeno quattro cose.
In generale il dato è ciò che possiamo conoscere, ovvero ciò che si manifesta alla nostra coscienza. Nella filosofia della percezione e in fenomenologia si parla di dato sensibile (da non confondere, ovviamente, con i dati sensibili di cui si discutere in materia di privacy).
Il dato sensibile può provenire dall’esterno – per esempio la luce – oppure essere originato dalla nostra interiorità – per esempio la paura. In entrambi i casi la percezione del dato è un’attività mentale che produce un giudizio. Diciamo «oggi fa freddo: è un dato di fatto», ma in realtà esprimiamo un giudizio sulla temperatura esterna. Ci dobbiamo dunque domandare se sia possibile riconoscere il reale nella sua datità (il Gegebenheit di Husserl, «ciò che il reale ci consegna», «ciò che è donato»), oppure solo giudicarlo.
In particolare il dato è ciò che si manifesta nella sua forma elementare, ovvero la descrizione elementare e codificata di un fenomeno. Possiamo parlare, per esempio, di dati personali (personali, particolari, giudiziari), dati di un problema, open data ecc.
Vi è poi una terza accezione del termine. Il dato è un elemento certo, necessario a formulare ipotesi o esprimere giudizi. Così è in espressioni quali «su quali dati si fonda la tua valutazione?», oppure «questo è un dato di fatto».
Infine nel lessico informatico il dato è un’unità elaborabile elettronicamente, ossia trasportabile, memorizzabile, impiegabile nell’ambito di calcoli.
Sostantivo e aggettivo
Inoltre non dimentichiamo che «dato» può essere anche aggettivo. In questo caso sono possibili due significati:
1. dedito (in espressioni come «è un uomo dato alla scienza»)
2. certo, determinato, preciso, specifico, stabilito (in espressioni come «in un dato momento», «a una data ora» ecc.)
Nel dibattito corrente le diverse accezioni della parola «dato» si confondono ambiguamente. Peggio ancora vanno le cose, quando utilizziamo l’inglese «data» (che notoriamente deriva sostantivo latino «datum», declinato al plurale). Pensiamo, per esempio, all’espressione big data tanto in voga da qualche anno a questa parte. Di che cosa stiamo parlando? Ci riferiamo a una grande quantità di informazioni elaborabili elettronicamente? Oppure a un insieme sterminato di descrizioni codificate? O ancora a manifestazioni del reale che ci appaiono in tutta la loro complessità? In un certo senso l’espressione designa un approccio alla conoscenza del mondo, più che riferirsi ai dati in quanto tali.
Comunque la mettiamo, dietro ai dati – o forse davanti a essi – c’è la capacità sommamente creativa di ricavarne un senso e di esprimere un giudizio. Senza tale creatività, i dati si fermano alla dimensione del rumore, mero disturbo della comunicazione causato dalla quantità eccessiva di informazioni e dalla ripetizione eccessiva di un segnale. Vale dunque l’osservazione di Giorgia Lupi: «parlare dei dati significa parlare delle loro qualità intime, dei loro aspetti soggettivi, imperfetti, persino di serendipità» (di un bell’intervento di Lupi a Meet the Media Guru abbiamo parlato qui).
In un mondo in cui i dati abbondano, forse non ci servono ancora più dati. Ci servono solide ragioni. Perché, come si incarica di ricordarci William Shakespeare in King John, «strong reasons make strong actions». Ovvero: le ragioni forti fanno sì che anche le azioni siano forti.