Con Eleonora Voltolina, ideatrice della Repubblica degli Stagisti, parliamo della situazione occupazionale italiana al netto delle più recenti politiche in tema di formazione-lavoro.
Ragionare di politiche del lavoro, scuola e formazione con Eleonora Voltolina è sempre stimolante. Voltolina, giornalista instancabile, ideatrice della Repubblica degli Stagisti e autrice di libri sul mondo del lavoro, è severa ma giusta nel fotografare il quadro attuale. Con lei vogliamo parlare della situazione occupazionale italiana al netto delle più recenti politiche in tema di formazione-lavoro. Che cos’è cambiato con gli ultimi provvedimenti? Che cosa serve ancora e che cosa non va?
Viviamo in un’epoca 2.0, 3.0, 4.0 in cui ciascuno di noi può far sapere ad un numero potenzialmente infinito di persone il proprio pensiero, le sue esperienze e può quindi coinvolgere, nel bene come nel male, a livello di reputazione, altri soggetti, siano essi personaggi pubblici, enti, istituzioni. Grazie ai media potenziati dalle nuove tecnologie, anche i casi personali diventano significativi. Su questa deriva “personalistica” si è innestato un ramo bastardo del giornalismo, che si concentra ormai quasi unicamente sul caso particolare (meglio se disperato) invece che su un’analisi più generale dei fenomeni. In questo articolo proveremo a cogliere la visione d’insieme del panorama occupazionale nazionale a partire dal punto di vista di chi, quel panorama, lo studia e contempla ormai da tempo.
Cos’è cambiato negli ultimi anni nel mercato del lavoro?
Ci sono alcuni grandi pilastri. Innanzitutto “Garanzia Giovani”, un programma europeo riccamente finanziato che ha avuto un’implementazione molto lenta all’inizio e risultati largamente inferiori alle aspettative – anche adesso che è a pieno regime. Io tuttavia continuo a sostenere che fosse necessario, da parte dell’Europa e dei singoli stati membri, fare un simile investimento su un tema così critico – quello della disoccupazione giovanile. Penso infatti che, anche se con un dispendio economico sproporzionato rispetto ai risultati, Garanzia Giovani abbia comunque avviato una riflessione e un meccanismo, spero irreversibile, di miglioramento dei servizi all’impiego. Questo programma oggi conta un milione di iscritti, giovani U30 che nella stragrande maggioranza dei casi prima non sapevano neanche che esistessero dei centri per l’impiego. Il rovescio della medaglia è che non sempre i centri per l’impiego offrono un servizio all’altezza. Tutto ciò al netto del fatto che, comunque, l’Unione ha appena riconfermato il suo impegno economico per Garanzia Giovani – e così continuerà anche nei prossimi anni.
Jobs Act, altro pilastro di questo mercato: ha avuto un riflesso importante sui giovani?
Nì. Per quanto sia una grande sostenitrice del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti, ammetto che, nella sua prima tranche attuativa, la riforma non abbia comportato nuove assunzioni (persone che prima erano disoccupate o inoccupate). Si è invece verificata una massiccia conversione di contratti già esistenti ma precari (co.co.pro, partite iva, etc.). Grazie agli incentivi, che sono stati molto generosi, unitamente alla nuova struttura giuslavoristica dei contratti, si è creato uno shift da una situazione occupazionale di bassa qualità a una di alta qualità – quindi con tutte le garanzie ai diritti del lavoratore proprie di un contratto a tempo indeterminato (tredicesima, quattordicesima, ferie pagate, maternità assicurata). Una critica, molto comune fra i tanti detrattori di questa riforma, è che i nuovi posti di lavoro sono stati pochi. É un dato oggettivo, ma una politica, soprattutto se a livello di occupazione, non si può mai misurare nell’ordine di qualche mese o anno. Bisogna tendere lo sguardo e focalizzarsi sul medio-lungo termine. Rimane poi un grave conflitto: lo stesso ministro Poletti, alcuni mesi prima di approvare il nuovo contratto a tutele crescenti, aveva avallato un decreto rispetto al tempo determinato, che aveva liberalizzato molto questo tipo di contratto. Oggi il contratto a tempo determinato risulta molto appetibile agli occhi del datore di lavoratore. È quindi un concorrente diretto del contratto a tempo indeterminato.
Un sistema regione-centrico
Come effetto della devolution dei primi anni duemila, che ha conferito alle regioni, in seguito a riforma costituzionale, tutta una serie di competenze in materia di formazione lavorativa, ci troviamo di fronte a un sistema caratterizzato da 21 regolamentazioni diverse. Con il referendum del 4 dicembre dell’anno scorso, il governo Renzi si era promesso di riportare gran parte di queste competenze in capo allo stato in modo da poter gestire centralmente le politiche del lavoro. Ad esempio, oggi gli stage extracurriculari, che coinvolgono oltre trecentomila persone ogni anno, sono di competenza regionale – il che significa che i diritti-doveri di uno stagista dipendono dalle regione a cui afferisce la sede legale dell’azienda per cui lavorano. Non c’è una regolamentazione omogenea che tuteli, universalmente, l’esperienza che più di tutte incarna il passaggio del mondo della formazione a quello lavorativo. È anche per questa ragione che mi ero schierata per il sì. Poi, per motivi probabilmente molto più politici che non legati alle singole questioni tecniche, ha prevalso il no. Rimane allora l’amarezza, per uno che lavora nel mio campo, di vedere come questo sistema fortemente regione-centrico, danneggi gravemente i giovani in cerca di lavoro, in particolar modo coloro che vivono in regioni meno sveglie, meno dinamiche, dove la burocrazia fa acqua da tutte le parti. Questa frammentazione dei diritti- doveri, che non riguarda solo lo stage, è deleteria se si vuole invece creare un buon tessuto occupazionale nazionale. Un caso pratico: Spindox offre un rimborso spese mensile di ottocento euro a tutti i suoi stagisti. Come azienda multilocalizzata con sede legale in Lombardia, tuttavia, viste le normative vigenti a carattere regionale, legalmente, se volesse, potrebbe opzionare la legge lombarda, che prevede un rimborso spese minimo di quattrocento euro, ed estendere questo tetto minimo anche a tutte le altre sedi – dove tuttavia, magari, lo stesso valore di rimborso minimo risulterebbe superiore (in Piemonte, per esempio, regione in cui Spindox ha ben due sedi, le legge regionale prevede un rimborso spese minimo di seicento euro, ben superiore quindi rispetto a quello previsto dalla legge lombarda). Insomma, non solo ci troviamo di fronte ad una situazione difficile dal punto di vista del mercato del lavoro, ma anche ad una struttura normativa che regola questo mercato complessa, a volte contraddittoria e sicuramente non efficace.
Tornando a parlare di Jobs Act: c’è chi sostiene si tratti di una misura con le gambe corte, cortissime.
Tutto il dibattito pubblico si è concentrato sul Jobs Act, che però è fatto di diversi decreti e, soprattutto, su una misura che in realtà non c’entra col Jobs Act in sé ma afferiva alla legge di stabilità di quel periodo: gli incentivi – i soldi che il governo ha versato per incentivare le assunzioni. L’immissione di una così generosa quota di capitale ha sollevato una critica circa una situazione del mercato occupazionale dopata. Ecco, non penso che chi abbia fatto notare questo avesse torto. Tutt’al più, penso che fosse e sia tuttora sbagliato mettere il carro davanti a buoi condannando una misura senza neanche averle dato il tempo di mostrare, o meno, la sua efficacia – cosa che avremo modo di verificare, più o meno, l’anno prossimo. Solo allora sapremo che fine avranno fatto tutti i soldi investiti sulle assunzioni. Soprattutto vedremo che fine avrà fatto chi è stato assunto grazie a questi incentivi. Due anni fa gli apocalittici erano già pronti a conclamare che sarebbero stati licenziati tutti dopo tre anni. Io non sono mai stata d’accordo. Si tratta infatti di persone su cui le aziende, nel corso di questi due anni, hanno investito molto. Sarebbe a dir poco controproducente mandarle via dopo tre anni. Detto questo, il tema degli incentivi è stato caricato del peso di troppe, davvero troppe parole (chiacchiere nella maggior parte dei casi).
Servizi al lavoro
Quello che rimprovero a questo governo è di aver fatto ancora poco nel campo dei servizi al lavoro: come accompagnare la gente a trovare lavoro e, forse ancor più importante, come educare le imprese a rendere contendibili i posti che offrono. Questo è un altro grande tema di cui quasi nessuno parla: c’è una percentuale enorme di posizioni lavorative che non vengono mai opportunamente pubblicizzate. Cosa succede? Spesso si apre una posizione che automaticamente, senza che venga neanche pubblicato un annuncio, viene subito coperta grazie a un sistema amicale geograficamente limitato fatto di segnalazioni, consigli, raccomandazioni. E invece più le posizioni lavorative diventeranno contenibili, più CV le aziende riceveranno per ciascuna posizione lavorativa aperta, riuscendo così a trovare la risorse migliori. Ne risulterebbe, quindi, una migliore allocazione delle stesse, che andrebbe a contrastare tutta questa opacità del mercato del lavoro, tutta questa staticità. Perché se un’azienda assume sempre profili locali, circoscritti al territorio in cui opera, che conoscono il tuo vicino di scrivania, come minimo perde l’occasione di allargare il proprio respiro culturale, la propria “biodiversità”.
Cosa si dovrebbe fare?
Bisognerebbe investire innanzitutto a livello di università: se davvero si vuole dare ai laureandi e ai neolaureati un aiuto serio e concreto per accedere al mondo del lavoro è necessario potenziare gli Uffici Placement. La Repubblica degli Stagisti ha portato avanti una ricerca su quelli degli atenei milanesi: sono uffici dove lavorano pochissime persone, molte delle quali part-time e con competenze specifiche in tema di matching domanda e offerta di lavoro non all’altezza. Dove vogliamo andare? Non è possibile che una persona si assuma la responsabilità di duecento-trecento stage all’anno. Insomma, ci sono temi che vanno ben oltre gli incentivi economici, che rimangono tuttavia il tema più appetibile per le aziende se non il più efficacie dal momento che tutte le altre misure che sarebbe cosa buona e giusta adottare – di nuovo, efficientare i centri per l’impiego, migliorare le politiche attive – richiedono, oltre a un mole considerevole di investimenti, un vero e proprio cambiamento culturale ( e di molto, molto tempo per entrare a regime).
Grave errore da parte del governo dare quasi per scontato l’esito del referendum…
Sicuramente. In vista di un sì vincente al referendum era stata creata e si erano conferite competenze all’ANPAL (Agenzia Nazionale Politiche Attive del Lavoro), l’ente che avrebbe dovuto sovrintendere, a livello nazionale, tutti i servizi all’impiego; era stato pensato tutto per riportare quelle competenze in capo allo stato con l’obiettivo di efficientare le politiche ai servizi al lavoro. Alla fine ha vinto il no. Oggi l’ANAPL esiste, ma come un guscio vuoto, e quelle competenze sono rimaste in capo alle regioni – con le quali l’ANPAL deve ogni volta, faticosamente, sedersi al tavolo, discutere e trovare in fine delle mediazioni, dei compromessi.
Le magie non esistono. Non si possono cambiare le cose se non si mettono i soldi. Nel nostro caso sono stati messi tantissimi soldi negli incentivi. Ma, per esempio, quando è stato creato l’ANPAL, nella legge istitutiva è stato scritto che l’ente non avrebbe dovuto comportare nuovi o maggiori oneri per lo Stato. Di fatto l’ANPAL ha dovuto drenare persone dal Ministero del Lavoro e da altre istituzioni – persone che già c’erano, il che significa che non ha potuto fare un concorso e assumere nuovi profili con competenze specifiche; inoltre non ha avuto budget per portare avanti politiche efficienti.
Conclusioni
Gli obiettivi si perseguono a decenni, non a sei mesi, e ci devi mettere i soldi, tanti soldi (vd. situazione demografica francese, frutto di onerose politiche avviate decenni or sono e oggi tanto invidiata dagli altri stati). Manca la lungimiranza e la consapevolezza che ci vogliono gli investimenti. Poi per carità, ben vengano gli incentivi, ma come traino per misure ad ampio raggio e a lungo termine e non come meri surrogati.