Analista funzionale, analista delle funzioni. Ok, ma cosa vuol dire? Che cosa fa l’analista delle funzioni? Analizza funzionalità? Cioè? Ecco, molto banalmente, il perché di quest’intervista: farci raccontare ma soprattutto spiegare il mestiere di “functional analyst” – sentite come suona bene in inglese.
I prescelti? Oneri e onori ad Alessia Giugno e Alberto Canuto. Ci descriveranno le prerogative di questo ruolo – il loro ruolo – i requisiti necessari per svolgerlo al meglio, qualche consiglio sulla formazione e, cosa ancor più preziosa, la loro personale esperienza nei panni di…esatto: functional analyst (suona davvero bene in inglese).
Di che cosa ti occupi? Che cosa fa, in concreto, un analista funzionale?
Alberto: “Mi occupo di due cose principalmente. Innanzitutto – può sembrare ovvio – di analisi funzionale. Analisi funzionale significa interagire con il cliente, capire nel dettaglio quali sono le sue esigenze, raccogliere i requisiti per la soluzione di cui ha bisogno e tradurre tutto questo in funzionalità e in input per chi dovrà poi sviluppare il software e la soluzione predefinita. Inoltre coordino i team di sviluppo, a supporto del project manager, occupandomi dei flussi di comunicazione. Faccio in modo – almeno ci provo – che tutto il processo di sviluppo software funzioni; che le persone siano sempre informate su quello che devono fare e che il lavoro proceda nel modo corretto.”
Non ci crederete ma la risposta di Alessia è stata molto simile. Strano eh? Fanno anche lo stesso mestiere…
Alessia: “Lavoro in Spindox come functional analyst. Mi occupo principalmente della raccolta dei requisiti utente, della definizione dei requisiti nel dettaglio e della redazione delle specifiche funzionali. Dopodiché collaboro in stretto contatto con il team di sviluppo affinché comprendano quali siano le esigenze del cliente e le sviluppino nel modo corretto. Dopo l’attività di sviluppo testo le funzionalità rilasciate e le comunico al cliente una volta che il software è pronto per i test finali di UAT (User Acceptance Test).”
Sempre in maniera molto simile, Alberto e Alessia ci hanno spiegato che l’analista funzionale è una sorta di jolly, di libero, di regista che fa da collante tra il lato cliente e il team degli sviluppatori. Per i quali funge al contempo da balia e da capro espiatorio; è guida spirituale nei momenti di maggior tensione e avvocato del diavolo quando riporta nuove richieste, migliorie o modifiche in corso e soprattutto in fase di testing. È un gioco d’equlibrio, di diplomazia, di grande empatia in cui servono spiaccate capacità gestionali e analitiche e grandi doti di comunicazione e di relazione con le altre persone. E poi visione del progetto a trecentosessanta gradi, per non lasciarsi sfuggire opportunità di business future.
Ovviamente per fare tutto questo hanno i loro assi nella manica. Fra tutti un software interno, JIRA, che permette di tracciare CR, new feature, improvement, issue o task (vale a dire: requisiti del cliente, nuove caratteristiche, migliorie, problemi. Insomma, tutte le attività che un analista funzionale deve seguire ed eseguire) in modo da evitare inutili riunioni e caterve di mail che si perderebbero nel cestino. Come da politica Spindox poi, lavorano con metodologia agile. Non tanto perché fanno smart working (non ancora), ma perché “non rilasciamo le funzionalità in un unico pacchetto finale ma secondo determinati slot che si chiamano sprint. Inoltre, quando ci arriva una richiesta da un cliente, non proponiamo mai una risposta standard. Piuttosto, si tratta di qualcosa di fluido che andiamo ad adattare di volta in volta. Siamo sempre proattivi, non vendiamo pacchetti o soluzioni preconfezionate. E questo non è un modo di dire ma ciò che facciamo tutti i giorni.” Da qui la relazione con il cliente che non non si configura come un semplice rapporto cliente-fornitore, ma quasi una sorta di partnership. Un valore aggiunto.
Parlando di formazione. Quella universitaria è: importante, necesaria, utile, inutile…
Alberto: “L’esperienza universitaria è preziosissima perché ti mette a contatto e ti costringe quindi al confronto con un mondo di coetanei, di persone che hanno sane ed ingenue aspirazioni, magari simili alle tue, magari diverse. Per quanto riguarda la didattica, nella mia esperienza è stata importante. Ma è ancor più importante affiancarle un qualcosa di concreto, un’attività lavorativa. Ti aiuta a capire meglio quello che stai studiando, in ogni caso, qualunque cosa sia. Quindi si, per me è importantissimo riuscire a studiare, a fare l’università. Oltretutto ti dà un modo di pensare, un approccio alle cose più approfondito. Cominci da lì a maturare la tua professionalità.”
Alessia: “Riguardo al percorso universitario vorrei dire che sicuramente laurearsi in una facoltà scientifica in generale avvantaggia un pochino l’entrata nel mercato del lavoro.”
Alberto infatti è diplomato in maturità classica e ha studiato Economia (una scienza umana o forse la scienza umana per antonomasia) a Torino. Alessia ha incominciato con una laurea in Gestione e Progettazione di Servizi Turistici presso una facoltà umanistica dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca per poi arrivare, attraverso uno stage in una web agency di consulenza che sviluppava siti web per gli hotel, ad un master in ICT management. Quindi sì, è vero, magari all’inizio una laurea scientifica può aiutare, può semplificare un po’ le cose. Ma in prospettiva – e qui sono di parte, di parte ma in buona fede – niente ti apre la strada come una buona formazione umanistica.
Cosa consiglieresti a chi vorrebbe fare il tuo lavoro?
Alessia: “Consiglio di non farsi troppi problemi nel chiedere aiuto e suggerimenti ai colleghi più esperti. Io ho fatto così quando ho iniziato. Non abbiate paura di chiedere, anzi…essere umili e dimostrare interesse e voglia di capire è uno dei modi migliori per iniziare un buon percorso lavorativo. Specialmente in questo ambito.”
Alberto: “A un neodiplomato consiglio di incominciare a lavorare il prima possibile. L’impatto col mondo del lavoro è fondamentale: ti cambia la prospettiva e cambia anche il modo con cui affronti lo studio.
Per un neolaureato, al di là di quello che faccio io, il mio consiglio è di fermarsi, respirare, capire bene quello che si vuole fare e non avere paura di farlo. Senza prestare troppa attenzione alle mode, che sono sempre fugaci, evanescenti. La strada poi tanto si trova da sé. È chiaro che ci vuole un po’ di sano realismo: non si può fare tutto quello che si vuole. Ma non per questo bisogna rassegnarsi e rinunciare in partenza senza aver fatto almeno un tentativo. L’importante è fare, è agire. Anche perché, come nel mio caso, alla fine ci si trova a percorrere strade che uno neanche immaginava.”
E ora, prima della solita domandaccia finale, concediamoci il lusso di divagare un po’. Sembra stiano tornando di moda valori come la trasparenza, la cooperazione in luogo della competizione…
Alberto: “In realtà quei valori ci son sempre stati. Le aziende che funzionano hanno sempre creduto in quei valori. Non c’è nulla di nuovo. Ci sono invece periodi in cui magari c’è una tale crescita del sistema che si perdono di vista questi valori. In maniera stupida e poco lungimirante si pensa che questa crescita non finirà mai, che non si avrà quindi più bisogno di seguire certi schemi, certe regole. Poi arrivano le crisi. E le crisi servono proprio a questo. È un momento di pulizia del sistema in cui si ridefiniscono delle regole e dei valori. Quei valori. Riemergono così le istituzioni, gli enti e tutti i soggetti che sanno lavorare bene. Non a caso, probabilmente, un’azienda come questa, in un momnento non semplice, è esplosa, è venuta fuori, perché ha saputo portare dei valori nuovi. O meglio, ha riscoperto dei valori, quei valori, che c’erano già e che altre aziende nel tempo avevano perso.”
Gran finale: oltre a migliorare la gestione delle macchinette del caffè, cos’è per te l’innovazione?
Alberto: “La maggior parte delle persone che conosco nel loro lavoro innovano tutti i giorni. Nel senso che, quando fai la stessa cosa per un certo periodo di tempo, ad un certo punto il tuo sforzo diventa quello di farla meglio. Cerchi di farla in maniera diversa. Cerchi dei metodi per fare la stessa cosa in modo diverso per ottenere dei benefici. Questo è un esempio ridicolo ma è innovazione. Se lo portiamo su scala più grande, un’azienda IT è innovativa quando cerca di portare nuove soluzioni a vecchi problemi. Quando cerca di guardare in modo nuovo a ciò che ha davanti. Già così fai innovazione. Se poi hai anche il coraggio di proporlo e metterlo in piedi allora sei un’impresa innovativa. E se riesci a fare qualcosa che nessuno aveva mai fatto prima, fantastico, ma questa è invenzione.”
Alessia: “Che cos’è per me l’innovazione? L’innovazione è un percorso molto lungo che tutte le aziende che aspirano a risultati di un certo livello dovrebbero intraprendere.
L’innovazione, che non può prescindere dalla qualità del lavoro nel quotidiano, richiede tempo, molto tempo. E impegno, proprio perché, come tutte le cose belle e importanti, è difficile da perseguire – e innovare, ossia adattarsi alla mutevolezza di una realtà in continuo divenire in modo benefico, per sé e per gli altri, è qualcosa di bello e importante.”