Il 16 luglio scorso Google ha annunciato l’adesione a OpenStack, il progetto lanciato cinque anni fa da Rackspace e dalla NASA con l’obiettivo di creare un sistema operativo open source destinato al controllo delle risorse sulle infrastrutture cloud pubbliche e private. Anche se la casa di Mountain View ha già avuto occasione di collaborare allo sviluppo di alcune parti del programma, in futuro il suo impegno su questo fronte crescerà in misura considerevole. Gli ingegneri di Google andranno ad aggiungersi a quelli di oltre 200 società già attive in OpenStack, fra le quali Cisco, Dell, HP, IBM, Intel, Oracle, Red Hat e VMware.

La mossa di Google, che ha una forte valenza simbolica, va chiaramente letta in chiave anti Amazon. Quest’ultima, forte della sua supremazia nell’ambito dell’IaaS con l’offerta AWS, non ritiene di dover collaborare con altri vendor e tende anzi a difendere il proprio vantaggio competitivo attraverso una strategia di “splendido isolamento”. Aderendo a OpenStack, viceversa, Google scommette un un futuro multi-cloud, nel quale sarà più che mai indispensabile rendere interoperabili i servizi offerti dai diversi attori.

Si tratta della scelta giusta? Difficile stabilirlo. Certo è che il programma OpenStack procede con grande lentezza, nonostante il cospicuo impiego di risorse progettuali e la sponsorizzazione economica di molti big. L’aspettativa di utilizzare OpenStack come un tradizionale software di integrazione infrastrutturale è oggi frustrata dalla scarsità di competenze disponibili. E si tratta di un gap che difficilmente Google riuscirà a colmare in tempo brevi. Un ambito in cui la collaborazione sarà intensa ed efficace è quello della containerizzazione. Il servizio di container management di OpenStack, denominato Magnum, usa infatti Kubernetes come componente di orchestrazione. E Kubernetes è stato sviluppato proprio da Google.