Anche se in parte smentita e anzi tacciata come “ridicola”, la notizia diffusa il 22 gennaio scorso da Robert X. Cringely, secondo cui IBM si appresterebbe a licenziare oltre 110 mila dipendenti in tutto il mondo, più di un quarto della propria forza lavoro, la dice lunga sul clima che regna nel gruppo. Che cosa ci insegna la crisi di IBM e quali sbocchi possiamo prevedere?

La prima cosa da dire, trattandosi di IBM, è che occorre maneggiare il tema con estrema cautela. Sarebbe azzardato, se non addirittura ridicolo, considerare una realtà di tale peso incapace di superare le difficoltà del momento. IBM dispone di risorse materiali e intellettuali straordinarie, in grado di reagire alle minacce esterne con grande energia. Lo testimonia un dato: nel 2014, per il ventiduesimo anno consecutivo, Big Blue si è collocata al primo posto nella classifica annuale dei brevetti degli Stati Uniti, segnando il record di 7.534 depositi, quasi il doppio di Samsung e il triplo di Microsoft e Google. Il 40% di questi brevetti è relativo a tecnologie per il cloud, gli analytics, il mobile e la sicurezza. In secondo luogo dobbiamo ricordare che, spesso, dalle grandi cadute nascono altrettanto grandi opportunità. Non a caso i vertici di IBM rifiutano l’idea di una crisi della società. Preferiscono parlare di “turn around”, passaggio e trasformazione.

Ciò premesso, le difficoltà del gigante di Armonk non possono non colpirci e meritano una serena analisi. IBM si trova nel mezzo di una trasformazione decisiva, un autentico cambio di pelle. Questo si riflette sulle vendite e sui profitti, che continuano a essere depressi. Negli ultimi cinque anni gli obiettivi sono quasi sempre stati mancati. E il 2015 non si annuncia roseo: le vendite dovrebbero mantenersi piatte, mentre i margini faranno registrare con ogni probabilità un ulteriore arretramento. Quel che è peggio – secondo gli analisti di grandi istituti come Bank of America e Deutsche Bank – è che questa situazione potrebbe durare ancora diversi anni. Il turn around di IBM è necessario, ma il problema sono i tempi.

Il percorso di trasformazione è iniziato nel 2012, sotto la guida del CEO Virginia M. Rometty, e prosegue lungo due direttrici: ridefinizione del portafoglio di offerta e enormi investimenti in innovazione. Da un lato abbiamo assistito alla cessione di attività poco remunerative, come la produzione di chip, le quali generavano però volumi significativi; dall’altro all’apertura di novi fronti – data analytics, sicurezza, mobile app e cloud – che nel 2014 sono cresciuti del 16% e hanno contribuito al 27% delle vendite totali. Nel complesso il 2014 si è chiuso per IBM con un giro d’affari di 92,8 miliardi di dollari (-6% rispetto al 2013). Nello stesso periodo l’utile netto del gruppo è calato del 7%, attestandosi a 15,8 miliardi di dollari ( si vedano i materiali disponibili online, in IBM 4Q 2014 Earnings Announcement).

Gli investimenti sostengono l’innovazione di IBM in più direzioni. Grande interesse suscita il progetto di intelligenza artificiale che ha portato allo sviluppo di Watson, un sistema in grado di rispondere a domande di ogni tipo espresse in linguaggio naturale (question answering computing system). In questo video registrato durante un TED del 2013 Eric Brown, di IBM Research, illustra in modo efficace i concetti che ispirano il sistema e le tecnologie di cui si compone:

Ma la vera sfida, per il gruppo, è quella del cloud. Il colosso americano ha deciso di posizionarsi in particolare come fornitore di infrastrutture per il cloud ibrido, proposto al mercato come il migliore compromesso fra cloud pubblico e privato. Per la verità Big Blue si propone anche come fornitore di PaaS, attraverso la piattaforma BlueMix. Si tratta però di un’offerta ancora poco matura. Nel 2014 IBM ha inaugurato dodici nuovi data center: tre totalmente autonomi, gli altri e gestiti in partnership con Equinix, il più grande fornitore di servizi di interconnessione e colocation del mondo. Il passaggio chiave di questo percorso è stata l’acquisizione, nel 2013, di SoftLayer: un’operazione costata a IBM due miliardi di dollari e apprezzata dalla maggior parte degli analisti. Nel 2014 la divisione cloud di IBM ha generato ricavi per sette miliardi di dollari. Nel frattempo Lance Crosby, CEO di SoftLayer al momento della sua acquisizione, ha abbandonato la società. La notizia, ufficializzata il 27 gennaio scorso, non è stata presa bene dagli osservatori. Specie perché il nuovo CEO, Robert Leblanc, non sembra avere il profilo adatto per proseguire nel percorso impostato da Crosby. In questo video di qualche mese fa lo stesso Crosby illustrava le strategie cloud di IBM:

Non sarà certo facile raggiungere l’attore incombente del IaaS, Amazon Web Services, in uno scenario competitivo nel quale l’unica regola certa sembra essere il continuo abbassamento dei prezzi e che vede correre altri soggetti molti agguerriti, come Microsoft, Google e Rackspace. Se poi consideriamo l’ambito del PaaS, a quelli già citati si aggiungono nomi non meno blasonati, come Oracle. La strategia di IBM punta a rafforzare l’offerta nell’infrastruttura di basso livello, mantenendosi neutrale rispetto alla scelta della cosiddetta cloud management platform (CMP). In altri termini il cliente che sceglie il cloud di IBM è tutto sommato libero di appoggiare sull’infrastruttura di SoftLayer diverse soluzioni – quali OpenStack, CloudStack, vCloud Director – a differenza di altri player. Questa scelta pone IBM in concorrenza diretta più con Rackspace che con AWS, Google o Microsoft.

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Socio fondatore e Direttore Marketing di Spindox. Insegno Comunicazione Digitale e Multimediale all’Università di Pavia. Da 15 anni mi occupo di cultura digitale e tecnologia. Ho fondato l’associazione culturale Twitteratura, che promuove l’uso di Twitter come strumento di lettura attraverso la riscrittura.