I fornitori di servizi ICT non sono più fonte privilegiata di innovazione digitale. E il modello della fabbrica non funziona più.
Che cosa succede se le imprese smettono di credere nei fornitori di servizi ICT? Se, cioè, si convincono che l’innovazione utile stia altrove? Sembra un paradosso, ma proprio questo è uno degli effetti della rivoluzione digitale. La School of Management del Politecnico di Milano si incarica di fotografarlo attraverso un’indagine recente condotta dai suoi Osservatori (al report della ricerca, che sarà disponibile a breve, dedicheremo un approfondimento nei prossimi giorni).
Intendiamoci, la crisi di fiducia non riguarda la qualità dei servizi in sé o l’affidabilità dei fornitori. Semplicemente le imprese cercano stimoli e contenuti fuori dal recinto della ICT. Almeno, fuori dalla ICT tradizionalmente intesa. In questo senso, gli oltre 150 intervistati, in prevalenza innovation manager di grandi aziende, fanno sapere che l’idillio con vendor e sourcer è finito. E il problema tocca anche le società di consulenza. Se negli ultimi tre anni advisor e fornitori di servizi ICT sono stati visti come fonte privilegiata di innovazione digitale, in futuro non sarà più così. Oggi le imprese guardano con maggiore attenzione alle linee di business interne, al top management e agli stessi clienti. Ma cresce molto l’interesse anche nei confronti di università, centri di ricerca e startup.
L’indagine degli Osservatori è riferita al contesto italiano, che ha spesso le sue peculiarità. Tuttavia è lecito immaginare che all’estero le cose stiano nei medesimi termini. Anzi, sappiamo bene che questa dinamica si è manifestata altrove prima che nel nostro paese. Ora tocca all’Italia, finalmente. Abbiamo almeno il vantaggio di imparare dall’esperienza e dagli errori degli altri.
Una sfida che fa bene
I fornitori di servizi ICT possono reagire in due modi: strapparsi i capelli e rimpiangere l’epoca governata da comode rendite di posizione, oppure attrezzarsi in fretta per rispondere alla nuova sfida. Ovvio che a noi interessa la seconda strada. Si tratta di capire tre cose fondamentali, senza le quali parlare di innovazione digitale ha poco senso.
In primo luogo l’innovazione digitale è abilitata dalla tecnologia, ma non è un fatto tecnologico. Dunque non si capisce perché dovrebbe svilupparsi tutta nello scambio esclusivo tra fornitori di servizi ICT e dipartimenti IT delle imprese. Del resto questo approccio ha funzionato poco anche nel passato. A maggior ragione è da evitare oggi.
Il secondo punto di attenzione riguarda l’idea stessa di tecnologia digitale. Considerarla come un mero insieme di infrastrutture, sistemi e applicazioni è un errore. La tecnologia digitale si compone di più strati, molti dei quali hanno poco a che fare con il software tradizionalmente inteso. Il focus si sposta dal software agli algoritmi, dal programma all’intelligenza, dal fatto tecnico a quello culturale. Fare innovazione digitale vuol dire prima di tutto innovare nell’ICT. Tempo fa Peter Norvig, research director di Google, si è domandato in modo neppure troppo provocatorio: «c’è ancora spazio per un ingegnere del software che non imparerà il machine learning nei prossimi dieci anni?» Crediamo che questa e simili domande siano davvero centrali per i destini dell’ICT.
Infine l’innovazione digitale è aperta, o non è. Non ha senso parlare di digital innovation pensando a modelli organizzativi tradizionali: una funzione interna dedicata, processi rigorosamente descritti e controllati, identificazione di pratiche eccellenti. Ancora una volta: tutto questo non funziona. Se c’è un aspetto dirsuttivo nel paradigma digitale, va ricercato proprio nella dislocazione distribuita di competenze, idee e iniziative. Ingrabbiare la dinamica emergente dei network di innovazione, il loro procedere per prove ed errori, significa condannarli a una misera fine.
Fabbrica o agenzia?
Da questo punto di vista fornitori di servizi ICT e dipartimenti IT delle imprese condividono la stessa sfida. Devono disegnarsi un ruolo diverso da quello del passato, magari avviando una nuova stagione di collaborazione. Due modelli si confrontano: quello della fabbrica e quello dell’agenzia. La fabbrica concentra le risorse, opera secondo una logica proprietaria, proceduralizza il lavoro delle persone. Persegue insomma l’efficienza, ma a discapito della capacità di innovare. L’agenzia, al contrario, ingaggia di volta in volta le risorse che servono, senza integrarle nella propria organizzazione e senza imporre una best practice. Il rischio dell’inefficienza è più elevato, ma cresce anche il potenziale innovativo. Per minimizzare il rischio e tradurre il potenziale in risultati concreti servono due cose: cultura e strumenti.
La cultura della open innovation rompe la logica dei silos che ancora oggi ingabbia la maggior parte delle imprese e dei fornitori di servizi ICT. Ma mette anche in discussione i modelli basati sull’irrigidimento di processi, ruoli e competenze. Diffondere nella propria organizzazione una cultura di questo tipo è diventata una questione di vita o di morte, di cui il management innanzi tutto dovrebbe rendersi conto. Quanto agli strumenti, essi sono indispensabili per abbracciare il modello dell’agenzia, senza perdere in efficienza ma anzi diventando più veloci e meno costosi. Ecco quindi la necessità di ridisegnare tempi e modi della comunicazione interna, di dotarsi di strumenti di collaborazione, di rivedere l’interna infrastruttura delle intranet.
Non c’è una schema valido per tutte le stagioni. La cultura di un’organizzazione, in particolare, nasce da una delicata alchimia fatta di valori condivisi e storie personali. Ma non c’è altra strada. Fornitori di servizi ICT e dipartimenti IT delle imprese devono partire da qui: dalla ricerca della cultura e degli strumenti migliori per restare protagonisti dell’innovazione digitale che verrà.