Ormai è chiaro: Industria 4.0 non è solo uno slogan. Così ci giochiamo il futuro del sistema produttivo. Il dibattito alla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa.

Ci si domanda se quella della Industria 4.0 sia un’autentica rivoluzione. Il dubbio è legittimo. Ed è comprensibile un certo scetticismo di partenza. Troppe le false rivoluzioni degli ultimi anni, dietro cui si celavano nel migliore dei casi più o meno brillanti operazioni di marketing. Troppo parlare a vanvera di innovazione ‘disruptive’, quella che sovverte le regole, distrugge uno stato di cose per creare nuovo valore. Con buona pace di Schumpeter, per il quale la distruzione creativa era una cosa seria.

Però forse questa volta dobbiamo crederci.

Se ne è parlato a Pisa, durante il convegno organizzato dai master MAINS e GECA e dall’Associazione degli Alunni AMNISA della Scuola Superiore Sant’Anna. E si è capita subito una cosa: la formula ‘Industria 4.0’ non è un nuovo abracadabra, non è puro gadget. Perché non è solo tecnologia. Certo, c’è una rottura tecnologica evidente. Anzi, parliamo di una serie di rotture, le quali hanno a che fare con il mondo dei cyber-physical sistems. Ma qui non si tratta di un fenomeno guidato esclusivamente dalla tecnologia. Come è accaduto per le precedenti rivoluzioni industriali, stiamo assistendo alla convergenza virtuosa di dinamiche tecnologiche, politiche e sociali. Lo spiega in modo chiaro Maria Chiara Carrozza, che in Parlamento ha avuto un ruolo fondamentale nella promozione del Piano Nazionale per la Industria 4.0: chi riesce a coordinare gli obiettivi di politica, sviluppo industriale e ricerca domina il mondo per decenni. È la lezione impartita al mondo dalla Gran Bretagna nel XIX secolo.

Politica, educazione, ricerca

Del resto il ruolo fondamentale della politica è un leit motiv delle rivoluzioni industriali: lo dimostrano non solo il caso dell’Inghilterra nella prima grande discontinuità, ma anche quelli di Germania e Stati Uniti nelle ondate successive. Anche l’ecosistema della Silicon Valley è un prodotto della politica e della pianificazione industriale di un’intera nazione. Non capirlo oggi comporta una grave responsabilità. Perché – come ricorda Livio Scalvini, Responsabile Direzione Innovazione di Intesa Sanpaolo – oggi è in gioco la sopravvivenza del nostro sistema produttivo.

L’Italia sconta un ritardo di almeno tre anni rispetto alla Germania, anche se ora sta cercando di recuperare il terreno perduto. Dal Piano Nazionale per la Industria 4.0 è certamente arrivato un impulso inedito. Tuttavia il quadro strategico nazionale non è ancora del tutto chiaro. Inoltre alcuni settori della Industry 4.0 non sono stati sviluppati in modo adeguato nel Piano, a cominciare da quello biomedicale. Senza contare l’assenza di una cultura diffusa, quale invece si percepisce in altri paesi europei e non.

Perché ogni rivoluzione industriale è anche una rivoluzione culturale. In questo senso la strada della Industria 4.0 conduce inesorabilmente al mondo dell’educazione. La scuola, che è stata la grande accompagnatrice delle rivoluzioni industriali precedenti, lo sarà anche della quarta. Non a caso è opportuno vedere quali modelli educativi si predispongono a supportare il nuovo scenario. Di grande interesse è il recente rapporto di Economist sul cosiddetto ’life-long learning’. Ma anche altre innovazioni, come quella dei micro e nano-crediti formativi, vanno considerate con estrema attenzione.

Dalla nuova robotica alla bionica

Ma quali sono i campi in cui la rivoluzione si materializza dal punto di vista industriale? Chiara Carrozza ne identifica tre.

Il primo è quello della robotica collaborativa, nel quale l’operaio opera accanto al robot, anziché essere sostituito da esso. Per collocarsi vicino al lavoratore, il robot si fa leggero e portatile: diventa un robot a misura d’uomo. Il secondo ambito è quello della  robotica sociale. Macchine intelligenti che agiscono in mezzo a noi: non solo in fabbrica, ma anche in casa e nello spazio urbano. Il prototipo dei prototipi è la self-driving car, perché sussume tutte le forme di cambiamento in atto: 1) il robot come macchina morale, 2) la collaborazione fra startup e vecchia industria manifatturiera, 3) l’uso di reti di nuova generazione (5G); 4) le forti implicazioni socio-politiche. Infine il campo della bionica, ovvero la simbiosi uomo-computer.

Le tecnologie abilitanti sono diverse. E questo è un altro fatto che caratterizza il mondo della Industria 4.0, distinguendola dalle precedenti rivoluzioni industriali. C’è l’intelligenza artificiale di nuova generazione: sia il machine learning propriamente detto, che lavora su un dominio specifico, sia algoritmi che producono intelligenza generalizzata e dunque molto più simile a quella umana. C’è il driver delle telecomunicazioni, che procedono rapidamente verso il 5G. Infine c’è il cloud, motore del computing distribuito.

Dove va il valore

Livio Scalvini mette in evidenza la drammatica divaricazione della creazione di valore fra i paesi, in atto nel passaggio alla Industry 4.0. Siamo testimoni di una polarizzazione estrema fra i primi e gli ultimi, uno spostamento di competitività fra paesi, settori e attori. Ciò che alla fine rischia di essere distrutto è una fascia media di soggetti. Avremo grandi campioni tecnologici e un tessuto di medie imprese sempre più marginali, con conseguenze importanti sia dal punto di vista dell’allocazione delle risorse sia delle dinamiche finanziarie. Si pone una questione di sostenibilità sociale di una classe media, sempre più emarginata.

In questo quadro la posizione dell’Italia non è certo eccellente. E il tempo a disposizione per colmare il gap attuale è pochissimo. L’Italia ha affrontato la prima e la seconda rivoluzione industriale giocando un ruolo importante, anche se in pochi casi da leader, mentre ha perso il treno per quanto riguarda la terza. All’appuntamento con la Industria 4.0 ci presentiamo con una serie di tare: siamo importatori di tecnologia, abbiamo pochi campioni industriali, ci manca la connessione fra la ricerca e il mondo delle imprese.

Peggio ancora: spesso manca la connessione fra impresa e impresa. E questo è particolarmente grave. Non dobbiamo infatti guardare l’azienda stand alone, ma nella sua connessione con gli altri attori della filiera produttiva. Se non si è connessi alle grandi filiere internazionali, si è espulsi dai sistemi produttivi. L’innovazione è un fattore discriminante, ma ha bisogno di competenze reperibili all’esterno. Nessun attore è escluso da questa dinamica.

Eppure, per certi versi, il modello della Industria 4.0 sembra fatto apposta per aiutare il nostro sistema produttivo. Ci potrebbe permettere di indirizzare, in particolare, il mai risolto problema dell’impresa italiana: la scarsa produttività. E potrebbe premiare gli esempi virtuosi di collaborazione di filiera. Insomma, ci sono tanti buone ragioni per crederci e impegnarsi.