L’ANTROPOLOGA STEFANA BROADBENT CI PARLA DI INTELLIGENZA COLLETTIVA, COMMONS E OPEN SOURCE. UNA CHIACCHIERATA A CAVALLO FRA PUBBLICO, PRIVATO E TERZO SETTORE.
Stefana Broadbent, di passaggio in Italia, ci ha concesso una breve intervista sul tema dell’intelligenza collettiva, di cui è una delle massime studiose a livello mondiale. La Broadbent, antropologa, capo del Dipartimento di Intelligenza Collettiva di Nesta, è stata ospite di Meet the Media Guru a Milano la scorsa settimana. Il suo un nome e la sua nazionalità sono britannici. Eppure parla in un italiano eccellente e asciutto, quasi milanese.
Ammetto che non me l’aspettavo.
Sono cresciuta a Milano tra gli 8 e i 18 anni, ho fatto le medie e il liceo in Italia. Poi sono stata tanti anni a Parigi, Londra, Ginevra, Edimburgo, in tanti posti. Ma i miei genitori sono tuttora qua, malgrado siano inglesi. E poi ho fatto il classico quindi non ho scuse per gli errori.
Allora le lascio la parola. Ci racconti delle sue ricerche
Sono vent’anni che studio l’uso quotidiano della tecnologia. Sono stata fortunata: è un tema dove ci sono variazioni costanti. Ho iniziato studiando i cambiamenti che l’automazione e le nuove interfacce comportavano sul lavoro. Con l’arrivo di Internet ho iniziato a seguire poco alla volta quello che le persone iniziavano a farci, come lo usavano, cosa cercavano, quali erano le difficoltà. Poi con i telefonini e il moltiplicarsi dei canali di comunicazione mi sono interrogata sul comportamento degli utenti quando stavano a casa.
Un paio di anni fa ho realizzato quanta conoscenza viene trasmessa via web. Quel che si vede aprendo YouTube, Facebook o qualunque altro social media è che oltre ai contenuti personali avviene un’enorme trasmissione di conoscenza. Si va dalla ragazzina che ti fa vedere come mettere l’eyeliner, al vecchietto che ti spiega come piantare i pomodori. Il fatto è che la gente non è brava solo a trasmettere, ma anche a ricevere. Questa è stata una constatazione abbastanza forte. In fondo è affascinante quanto siamo bravi a capire da un messaggio di 140 caratteri o da un video di tre minuti. Si tratta di conoscenze decontestualizzate, è una capacità straordinaria di trasmissione di conoscenza. Il video di uno che fa crescere le patate in Belgio o in Uganda rimane relativamente leggibile da noi che stiamo qui in Italia. Questa incredibile capacità di capire cose fuori contesto, che vengono da molto lontano, magari fatte da persone che non si sono mai incontrate, io non me l’aspettavo.
Così molte organizzazioni si sono accorte di questo cambiamento e negli ultimi 4-5 anni si è iniziato a parlare molto di intelligenza collettiva. Inizialmente il tema è venuto fuori soprattutto nel mondo software, nel machine learning. Adesso si è diffuso anche nel mondo civile e delle organizzazioni pubbliche. Ci si sta rendendo conto che abbiamo queste competenze diffuse che sono una risorsa pazzesca da mobilitare per risolvere i problemi.
A me poi colpisce particolarmente quanto interesse stia mascendo nel mondo delle amministrazioni pubbliche per la possibilità di utilizzare le expertise dei cittadini. C’è stato un progetto di ricerca molto grande in America, legato alla Casa Bianca, a cui ho preso parte: The Opening Governance Network. La domanda che ci si poneva era come fosse possibile innovare il modo di governare per capitalizzare le expertise dei cittadini, che improvvisamente sono molto, molto più accessibili.
Questo per quanto riguarda il pubblico. E nel settore privato come cambia l’intelligenza collettiva?
Nel privato si sta cercando di sfruttare in ogni modo l’intelligenza collettiva. Si vuole usare una rete diffusa perché qualunque cosa si prenda da lì ha un doppio valore: coinvolge nelle conversazioni e dà un sacco di informazioni su ciò che il pubblico vuole. Quindi è usata da un lato per fidelizzare i clienti, dall’altro per generare delle idee. Penso al caso di NikeiD con cui è possibile ordinare scarpe personalizzate, oppure il caso clamoroso di Amazon Mechanical Turk, per delegare le micro task, dove chiaramente l’obiettivo è di avere accesso a una risorsa molto economica.
E qui si apre il classico dibattito sul digital labor. Le informazioni sulla mia navigazione e le opinioni che fornisco contribuiscono a produrre valore: ma questo significa che si tratta di lavoro, o no? E se lo è, in che modo posso legalizzarlo?
Un approccio speculare a questo è il discorso sui commons, cioè la creazione di spazi comuni dove le conoscenze sono regolate da forme molto più cooperative. È in fondo il mondo open source – di Wikipedia per intenderci – dove tutti i contributi rimangono lì a disposizione della comunità.
Queste sono le applicazioni dell’intelligenza collaborativa nel settore privato e in quello civile. Poi si cerca di usarla anche in quello pubblico. Ogni settore rispecchia un modello socio-economico diverso.
Come e su che scala avviene l’applicazione nel settore pubblico?
Dipende. Tutti oggi stanno sperimentando, non ci sono casi riuscitissimi su tutto. Le sperimentazioni più avanzate sono quelle locali, a livello di municipalità o città. Io cito sempre il caso di Parigi (“Signor sindaco ho un’idea”). Oppure c’è la Scozia che fa consultazioni pubbliche su tanti temi. Ci sono stati anche tentativi a livello nazionale. Uno è il caso della costituzione islandese, che però è stato un fallimento totale. Lì forse sono stati troppo ambiziosi sul fatto di affrontare una cosa che ha un livello di complessità pazzesco.
Attualmente, negli Stati Uniti e in Gran Bretagna soprattutto, si punta tantissimo sul crowdsourcing applicato all’ambito scientifico, in particolare per affrontare i cosiddetti grand challenge. Cioè si cerca di capire come si può porre il crowdsourcing rispetto a grosse tematiche, come il cambiamento climatico e l’innalzamento dei mari.
L’idea è che in pratica tutti i dipartimenti possono contribuire per affrontare il problema, perché nessuno di loro, nessuna singola disciplina può farlo da sola. Si tratta di problemi troppo integrati. E sento parlare di questa tematica del grand challenge anche a livello internazionale.
A livello statale sembra essere questa l’applicazione dell’intelligenza collettiva. A livello locale invece lo scopo è raccogliere le proposte dei cittadini su cose più pratiche, come questioni di budget o per la gestione dei parchi pubblici.
Quindi può essere uno strumento di risoluzione di problemi complessi?
Diciamo che io sento sempre più che questo è visto come un potenziale veicolo per affrontare proprio i problemi complessi. Il vero problema è fare delle sintesi. Le idee vengono date, ma poi chi è che sintetizza? Gli strumenti sono in evoluzione, anzi sono spesso inesistenti. In fondo è da poco che parliamo di queste cose, si stanno sperimentando vari modelli di governance. I modi di contribuzione sociale anche sono diversi.
Ed è una sperimentazione fruttuosa? Si intravede emergere un metodo in particolare?
Sì, la casistica relativamente più solida è quella dei commons. Quando ci sono delle comunità tematiche che decidono di munirsi di strumenti, di piattaforme che permettano di depositare quello che sanno, di accumulare conoscenza. Ho studiato un caso in cui questo funziona benissimo, cioè quando si tratta di pazienti di ospedale.
I gruppi di pazienti hanno un obiettivo comune: loro o i loro cari sono ammalati, c’è un forte engagement. Ci sono spesso conoscenze scientifiche parziali, c’è la volontà molto forte di contribuire con le proprie conoscenze. Chiunque abbia una malattia complessa ha bisogno delle esperienze degli altri per capire cosa gli succede, e leggendole molto spesso arriva a saperne più del dottore. Poi spesso c’è una grande dimestichezza col web, perché la gente si butta immediatamente a cercare informazioni.
Nel caso dei pazienti contribuire è una forma di giving back, cioè chi guarisce ha un senso di riconoscenza che spinge ad entrare in dialogo con gli altri che stanno vivendo la stessa malattia. È interessante poi che gli spazi che nascono non sono utili solo ai pazienti, ma anche a dottori e ricercatori. Spesso uno dei grossi problemi dei ricercatori che studiano malattie rare è trovare pazienti con cui fare dei tryout clinici: se c’è una malattia rara che ha 80 pazienti in Italia, 100 in Uzbekistan e 40 in Finlandia, fa comodo unirli in un’unica base di paragone. Così usano queste piattaforme per creare dei registri specializzati, che tendono ad aggregare attori con vari livelli di motivazione: dai pazienti ai medici.
Questo vale anche per altri campi tematici, così i commons sono iniziati a funzionare abbastanza bene.
E gli ostacoli quali sono?
Ci sono problemi perché magari gli strumenti che usano sono pessimi. O magari c’è un pezzo di informazione su Facebook, altri pezzi di conversazioni utili su Whatsapp, poi ancora su Google Docs e su altri siti, tutti sparsi in giro per la rete. Insomma stanno arrabattandosi con gli strumenti, ma nonostante questo le cose stanno andando bene.
Nel campo dell’amministrazione pubblica invece secondo me ci sono strumenti molto belli per quel che concerne il voto diretto. Però sono più che altro strumenti plebiscitari. Sembra che ci sia meno interesse a chiedersi come utilizzare le expertise, e probabilmente più che di un limite tecnico si tratta di un problema di organizzazione istituzionale. Cioè un’amministrazione per statuto deve pagare delle persone per fare delle cose, se improvvisamente inizi a usare le expertise di volontari come fai a valutare il loro contributo rispetto alle persone che già paghi?
Ancora non c’è una risposta, ma secondo me nei prossimi anni ci sarà uno sviluppo pazzesco nell’uso dell’intelligenza collettiva in quella direzione. Perché risponde a due esigenze: quello della creazione di fiducia e quello del risparmio. In questo periodo di tagli al budget, se si può ottenere un contributo volontario da gruppi civili che non devi finanziare, è la pacchia assoluta.
Questo se uno vuole essere cinico. Però se si vuole essere positivi c’è da dire che abbiamo un pubblico molto più educato al digitale, molto più capace, con molte più expertise. Secondo me è in atto un passaggio generazionale che sta cambiando la relazione tra cittadini e istituzioni.
Però quando si affrontano questioni complesse servono competenze specifiche, che non tutti hanno.
Sì infatti nella open source sono state fatte delle scelte chiarissime, in ogni situazione i nuovi utenti sono sempre passati al vaglio. All’inizio i contributi che possono dare sono piccoli e vengono guardati da qualcuno di più esperto, poi man mano gli si dà più spazio e così via. Così si forma una gerarchia, un’organizzazione di tipo meritocratico. Questo tipo di accompagnamento fatto da persone più esperte è necessario e inevitabile.
A questo proposito ho parlato con qualcuno che si è occupato dell’Internet Bill of Rights in Italia, e mi hanno raccontato che quando avevano chiesto dei contributi ne avevano ricevuti di livelli diversissimi. Da gente furiosa che voleva dire la propria, fino all’avvocato in pensione esperto di IT. Resta la domanda su come far convivere livelli di expertise così diversi. Io finora francamente non ho ancora visto strumenti sofisticati per farlo. L’impressione è che tutto venga fatto a mano attraverso sistemi di voti, di rating. Per esempio in Podemos a Barcellona si valuta in base a quanti voti positivi vengono dati alle proposte. Usano l’intelligenza del gruppo per fare da filtro, così possono evitare che singoli responsabili debbano leggere tutto. Se il gruppo ha deciso che quell’idea non merita più di tot, si ignora.
Però in un sistema del genere chi riesce a organizzare un numero di persone o di utenti abbastanza grande può far pesare i propri interessi. Non si rischia il populismo?
Paolo Gerbaudo ha scritto un bellissimo libro al riguardo, dal titolo Tweets and the streets. Ha analizzato la primavera araba e le due nuove forme politiche che emergono dall’applicazione della politica digitale: i sistemi plebiscitari cioè di voto diretto, in cui pesa il numero, e i sistemi deliberativi, in cui si raccolgono le opinioni. Arriva a considerarli entrambi sistemi imperfetti.
Insomma: se gli strumenti sono imperfetti tutto dipende da chi gestisce i canali e come.
Sì, poi le forme di governance dell’intelligenza collettiva cambiano a seconda della necessità. Come ho detto per me le tre aree in cui ci sono esplorazioni sono quella politica, quella commerciale e quella civile. Seguiranno strade relativamente diverse, staremo a vedere cosa succederà.
(Intervista realizzata da Daniel Neri; foto di James Cridland)