Il management 1.0 è ancora qui. Nonostante tutta la retorica sul cambiamento e la ‘learning organization’. Perché la vera scommessa è disimparare.

Se l’industria celebra il suo ingresso nell’era 4.0, il management resta inchiodato al modello taylorista. La cosa è sotto gli occhi di tutti, con buona pace della retorica in offerta un tanto al chilo nelle librerie degli aeroporti o nei corsi per aspiranti manager del nuovo millennio. La logica che impronta la gestione della maggior parte delle organizzazioni sta ancora in due vecchie parole: comando e controllo.

Oggi se ne discute alla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa. Il titolo del convegno, organizzato da MAINS, GECA e Associazione degli Alunni AMMISA, potrebbe suonare come una provocazione: ’Industry 4.0. Implications for Management’. Se non fosse che il tema è maledettamente serio. Davvero si tratta di eseguire un reload del management, cioè la sostituzione di un vecchio programma con la sua versione più aggiornata.

Management ‘digitale’

Ma che cosa vuole suggerire il titolo del convegno? Forse l’idea che modelli gestionali inediti sono abilitati dall’ICT e dall’evoluzione tecnologica. Un’evoluzione rapidissima e stupefacente: big data, cloud computing, internet of things, robotica. Come dire: «è il digitale che avanza, bellezza; e non ci puoi fare nulla». L’idea è molto giusta ma, allo stesso tempo, molto pericolosa. Essa nasconde un equivoco: che si pensi al nuovo management partendo dalla tecnologia. Si tratta di un grave errore, che vedo commettere spesso.

Il manager ‘digitale’ non è un manager tecnologicamente equipaggiato, né un manager preso da improvviso e confuso entusiasmo per tutto ciò che reca l’etichetta 2.0. Perché la tecnologia non ha in sé qualcosa di deterministico. Essa non ha il potere di cambiare le cose, ma solo di agire in un processo di influenzamento sociale, favorendo risultati in una o nell’altra direzione a seconda dell’uso che se ne fa. Come ci ha insegnato Melvin Kranzberg, la tecnologia non è buona né cattiva. È un’attività umana, e come tale non è neutrale. Soprattutto sappiamo che, quando si tratta di compiere delle scelte nelle questioni tecnologiche, i fattori non tecnici finiscono col prevalere sempre.

Gerarchie e reti

Mi aiuta un esempio, che prendo in prestito da Mark Boncher (Why the Problem with Learning is Unlearning). Si parla spesso della necessità di adottare nuovi modelli organizzativi, passando dalla gerarchia formale – che trova la sua rappresentazione plastica nell’organigramma – alla rete. Si tratta, com’è evidente, di un tributo alla retorica dei social network. Ma che cosa si percepisce, dietro questa enunciazione? Il più delle volte la rete non è intesa dal manager/executive come sistema aperto, fluido ed emergente. L’autonomia dei nodi della rete, la loro capacità di autoorganizzarsi, è percepita semmai come una minaccia. Dunque, quando invitano i propri collaboratori a fare network, i manager hanno in mente tutt’al più forme di integrazione interfunzionale, timide collaborazioni fra i silos.

Il punto, come sottolinea lo stesso Boncher, è che il manager non intende dismettere i modelli appresi e fin qui praticati, anche se obsoleti. Non è disponibile, insomma, a disimparare. E invece ritengo che questa sia la grande virtù richiesta oggi all’interno di un’organizzazione: saper disimparare ciò che si è imparato, per poter imparare cose nuove.

Coazione a ripetere

Riconoscere che il vecchio modello mentale non è più rilevante o ha perso la sua efficacia è senz’altro il primo passo. Ma non basta. Vi sono legioni di manager che si ostinano a replicare comportamenti disfunzionali perché non riescono a farne a meno, pur vedendone con chiarezza i limiti. È una sorta di freudiana coazione a ripetere. Ci troviamo nella medesima situazione del bambino che impara l’uso della bicicletta senza rotelle di sicurezza. L’impresa gli riesce solo nel momento in cui disimpara il ‘vecchio’ comportamento, quello con le rotelle. Allora si accorge di riuscire a mantenere l’equilibrio come e meglio di prima. Spesso il manager si aggrappa ai comportamenti imparati nel passato come il bambino si affida alle rotelle della bicicletta.

Imparare a disimparare, dunque. Più o meno tutte le nostre imprese, grandi e piccole, sono permeate dalla retorica della ‘learning organization’. La celebrano come si celebra un luogo comune. Per avere successo – per sopravvivere – le organizzazioni devono trasformarsi continuamente. Nei fatti, però, più o meno tutte le nostre imprese continuano ad applicare vecchi schemi, poco adatti ad affrontare le situazioni mutevoli e complesse di oggi. Il management per l’industria 4.0 dovrà lavorare su tre leve: determinismo (in un sistema complesso gli eventi non sono mai certi, ma più o meno probabili), congiunzione (in un sistema complesso ogni fatto è collegato a un altro fatto, e anche il battito d’ala di una farfalla può provocare un uragano) e multidisciplinarietà (in un sistema complesso il sapere verticale non è mai sufficiente a comprendere la natura di un fenomeno). Se questo è vero, abbiamo un problema. Oggi i tic del management di chiamano determinismo, disgiunzione, specializzazione. Insomma, non siamo pronti. Se cominciassimo a disimparare?