marco bicocchi pichi

Lectio magistralis di Marco Bicocchi Pichi. Dove si parla di startup e del ricollocamento virtuoso del sistema Italia. In un mondo che non è più stati e confini, ma reti e flussi.

L’intervista a Marco Bicocchi Pichi, presidente di Italia Startup, Business Angel of the Year 2014 e molte altre cose. Quando una chiacchierata sul mondo delle startup si trasforma in una dissertazione di economia e geopolitica.

La nostra conversazione con Marco Bicocchi Pichi doveva essere un’intervista come un’altra. È diventata una sorta di lectio magistralis, un’analisi che comincia con la disamina di una serie di problemi e poi si sviluppa nel tentativo di proporre alcune soluzioni. Il testo è lungo, ma vi consigliamo di leggerlo tutto: ne vale la pena.

Il mercato dei capitali di rischio in Italia

Un primo punto d’attenzione riguarda il capitale, i rendimenti e la concorrenza. Oggi il capitale ha una dimensione internazionale. È uno stock globale. La libera circolazione dei capitali, la concorrenza fiscale tra stati – inclusi i paradisi fiscali, ma non solo – rende globale la competizione.

Ma chi compete per questa enorme massa di soldi? In Italia in primo luogo è lo Stato. Con un debito pubblico di 2.283,7 miliardi (stima a settembre 2017, n.d.a.), pari a oltre il 133% del PIL, è un concorrente per le risorse che, dall’alto di un potere legislativo su cui ha l’esclusiva, assegna a se stesso una condizione di vantaggio per il collocamento di stock di capitali sul proprio debito. Ha inoltre la prerogativa di imporre tasse e imposte per coprire la spesa corrente e la spesa per interessi, oltre che la spesa per investimenti – la quale tuttavia, come da Legge di Bilancio 2017, ha un peso relativo, inferiore al 7% (vedi Ragioneria Generale dello Stato).

Vi è poi un mercato nazionale di debito quotato, la borsa, che è un mercato liquido come il mercato dei capitali di rischio per le imprese quotate. Il mercato delle imprese private invece è illiquido. Startup e PMI non quotate concorrono per attrarre capitale di rischio, rappresentando una “asset class” (un impiego di capitali) con caratteristiche di illiquidità e rischio che possono essere compensate solo da un’aspettativa di potenziale ritorno elevato.

Per un ritorno sull’investimento elevato serve un fisco “amico delle imprese” e del reddito da lavoro e impresa. Una condizione che lo Stato, impegnato a rifinanziare il proprio debito sul mercato, non riesce a garantire. Non solo infatti ha difficoltà a ridurre le tasse su lavoro e impresa ma deve anche premurarsi di mantenere una tassazione sulle rendite finanziarie sufficientemente attrattiva in modo da incentivare gli investimenti sul debito. Assorbe quindi risorse finanziarie soprattutto per finanziare spesa corrente e spesa per interessi e genera condizioni sfavorevoli all’investimento di capitali nelle imprese non quotate.

La recente manovra agevolativa sui PIR (Piani Individuali di Risparmio) così come le misure agevolative di detrazione fiscale per investimenti in Startup Innovative vanno nella direzione di correggere queste condizioni sfavorevoli. Ma occorre fare di più. Sicuramente utile, in questo senso, il recente provvedimento approvato, per ora, in Commissione Finanze della Camera sulla destinazione di quota dei PIR all’investimento in startup.  Ricordiamoci comunque che il capitale è liquido e mobile a livello internazionale.

La propensione al rischio

Un secondo punto di attenzione riguarda la propensione dei risparmiatori italiani al rischio. In Italia i risparmiatori rappresentano uno stock di capitale di circa 4.000 miliardi di euro, di cui circa 1.000 di disponibilità liquida. Questa è in larga parte detenuta da possessori di patrimoni superiori ai 500.000 euro. È il cosiddetto segmento di clientela del “private banking”. Ora, nel mondo del venture si dice che non si dovrebbe investire più del 2,5-5% del proprio patrimonio. Ecco che, facendo un paio di conti, il cuore del mercato dell’investimento diretto in startup viene a essere quello dei patrimoni superiori ai 2 milioni, ovvero di chi potrebbe tranquillamente investire almeno diecimila euro in decine di investimenti, costituendo portafogli da centinaia di migliaia di euro d’investimento totale.

Possiamo individuare allora due gruppi o classi sociali: una parte, l’insieme dei più facoltosi, che può agire in maniera diretta; un’altra, invece, che opera indirettamente attraverso l’aggregazione di migliaia se non milioni di micro-quote di fondi o fondi di fondi. Sono i piccoli o micro-risparmiatori. Statisticamente la classe dei più facoltosi, quella che potrebbe fare la differenza, mostra un’insufficiente propensione al rischio. Quando considera questa classe d’investimenti (startup) spesso è anche esterofila. Investe in Israele, negli USA, in Asia, trascurando il mercato domestico, considerato ancora troppo piccolo e rischioso. In questo senso manca uno sforzo corale patriottico. Non c’è un contributo a innescare un circolo virtuoso ma una focalizzazione sull’ottimizzazione (reale o previsione auto avverante) dei rendimenti in assoluto. Anche le poche grandi imprese multinazionali risultano ormai scollegate dal sistema italia. Quasi totalmente rivolte al mercato globale, intessono rapporti privilegiati con hub già sviluppati ed evitano di assumere un ruolo sociale di guida e di sviluppo all’interno dell’hub italiano.

Per quanto riguarda l’ecosistema Italia quindi, abbiamo tutta la parte di sistema finanziario che non funziona come dovrebbe. C’è un concorrente, il pubblico, che  fa le regole e che drena risorse; un mercato internazionale più maturo, più attrattivo. Vi sono poi alcuni impedimenti, come l’impossibilità, per esempio, di poter investire, da parte di alcuni fondi previdenziali, in capitale di rischio. In ultimo il ratio fra capitalizzazione di borsa e PIL, vale a dire il rapporto fra la dimensione della borsa, dell’investimento in capitale di rischio e i patrimoni: un parametro che condanna l’Italia a uno dei gradini più bassi nella scala delle economie occidentali. Questo trend si riscontra anche sugli investimenti nei mercati più liquidi di aziende già mature, in netta contrapposizione con i paesi anglosassoni, dove, non a caso, anche i mercati del venture capital e del private equity sono più sviluppati. Lì vi è una maggior inclinazione all’imprenditorialità e a remunerare il capitale di rischio.

La cultura del fallimento

Il rischio di fallire di una startup è alto; in Italia più che in altri paesi. In mancanza di una sana e matura cultura del fallimento, il posto come salariato rimane sempre più appetibile rispetto all’incertezza insita nel fare nuova impresa. Ma soprattutto, i giovani potenziali migliori talenti, quelli cioè che avrebbero le capacità per riuscire, visti i rischi e la difficoltà di ricollocamento nel mondo del lavoro in seguito a un’attività non andata in porto, salvo poche eccezioni non sono attratti dall’opzione imprenditoriale. Rinunciano a priori, non ci provano nemmeno, preferendo la sicurezza di un posto da salariato.

Se confrontiamo invece queste due opzioni (salariato vs imprenditorialità) in una classe di promozione di un MBA – di Harvard per esempio – vediamo come nel tempo sia sensibilmente aumentato il numero di coloro che preferiscono la via in salita della startup rispetto a un percorso più piano da consulenti o nelle grandi imprese e banche. Questo perché creare una propria startup implica una serie di elementi di potenziale supporto al successo. Fra tutti, la valorizzazione dell’esperienza – e del fallimento, qui spesso erroneamente e gravemente demonizzato. Ora, il fattore di rischio è inevitabile: non potrebbe essere altrimenti. Solo, non dovrebbe essere così radicale, com’è oggi in Italia per un giovane. Inoltre, la probabilità che tu fallisca non dovrebbe essere legata alla difficoltà di reperire finanziamenti e clienti. Almeno non in maniera così forte. Realtà e idee come Dollar Shave Club dovrebbero poter nascere anche qui. Poi, certo, probabilmente possono scalare solo in un mercato come quello degli USA o cinese, perché l’Europa da questo punto di vista ha un problema di single market reale. Di fatto, espandersi in Europa vuol dire gestire n mercati, con n lingue diverse e n regolamentazioni fiscali (siamo ben lontani dall’avere un single market omogeneo simil USA. Subiamo invece un mercato di riferimento che è più piccolo).

Società liquide oltre i confini

Vi è poi un altro problema: sembra che in Italia non sia ancora stato accettato il fatto che la globalizzazione non è qualcosa a cui ci si possa sottrarre o da cui ci si possa isolare. Esiste ed è un fenomeno pervasivo che innerva la società mondiale e contagia, nel bene come nel male, ogni individuo facente o non facente parte di questa società. Oggi, a maggior ragione se voglio fare impresa, mi devo confrontare con il mondo, con un mercato aperto, concorrenziale. Un mondo liquido, fluido, apolide, con sempre meno confini, che ha completamente stravolto e ribaltato i vecchi schemi. È un cambio di paradigma totale.

Un tempo benessere e cultura erano implicati e legati, in uno stretto rapporto biunivoco, a una territorialità ben definita. La terra era fonte e garanzia di ricchezza. Il nobile traeva il suo titolo, il suo status sociale, oltre che ricchezza e sostentamento, proprio dalla terra. Oggi invece più sei ricco e meno sei legato e identificato con un territorio; d’altra parte più sei povero e più sei vincolato e subisci la terra, i confini. Basti guardare agli immigrati, prigionieri della geografia.

Insomma, stiamo assistendo a un fenomeno che Parag Khanna, nel suo recente libro Connectography (aprile 2016), ha definito come un passaggio dai confini alle reti. Secondo lo stratega geopolitico indiano ci troviamo in un mondo controllato dalle supply chain, in cui gli stati, o le aziende-potenze multinazionali che si fanno stati, mirano ad influenzare le grandi rotte. Non contano più la terra e i confini ma le reti e il controllo dei flussi.

Pensare e agire in grande

Il sistema dell’innovazione si inserisce in questo più ampio sistema inter-relazionale. È proprio per questo che è di fondamentale importanza pensare in grande. Grande nel senso di ramificato, distribuito, capillarizzato. Grande anche dal punto di vista degli investimenti. Passare da un modello geopolitico e geostrategico basato ancora sui confini a uno basato su un sistema di reti infatti significa affrontare sin da subito – e sottolineo sin da subito – un mercato globale. E un mercato globale è, innanzitutto, un mercato più grande.

Ecco perché servono grandi investimenti. Ecco perché un modello a crescita sequenziale, con investimenti piccoli e graduali, non è più attuale. E soprattutto ecco perché “piccolo non è bello”. Viviamo in un mondo globalizzato, più ricco – di risorse, di opportunità, ma anche di rischi; un sistema di vasi comunicanti attivo da cui è impossibile sottrarsi. Siamo esposti al mondo. Questo ha i suoi lati positivi – abbiamo a disposizione una domanda allargata – ma comporta anche nuove sfide. Per essere competitivi in questo sistema allargato allora, dove tutto è più grande, non si può pensare di rimanere piccoli. Serve una prospettiva più ampia, serve guardare al lungo termine, servono capitali, investimenti e risorse maggiori.

Di nuovo, tutto è globale, tutto è più grande. Purtroppo a livello politico c’è una risposta di chiusura, di introversione che è esattamente l’opposto di quello di cui abbiamo più bisogno: ossia affrontare a viso aperto, una volta per tutte, il tema dell’internazionalizzazione.

Il ruolo dell’Italia nella governance mondiale

Cultura, cultura e cultura. E visione. Perché è  una questione di rivitalizzazione, di riadattamento. Se uno mi dicesse che costruire un hub a Reggio Emilia o a Bologna (per fare un esempio di due città sulla Freccia Rossa Valley in contesti universitari e industriali sviluppati) è meno conveniente che costruirne uno a Boulder, Colorado, sede di nascita di TechStars nel 2006, dubiterei della sua onestà intellettuale.

L’esistenza di bellezza, tradizione universitaria, stock di capitale – anche di impresa – e di capacità realizzative che abbiamo qui in Italia è invidiabile in qualsiasi altra parte del mondo. Si tratta solo di rivitalizzare, riadattare queste capacità inespresse, di liberarle creando le condizioni perché possano tornare ad esprimersi. Di sicuro quello che non funziona è di pensare di ripercorrere la strada che dal 55’ in avanti ha portato al boom economico. Quello lì era un mondo dei confini, e la guerra fredda lo ribadiva. C’erano le monete nazionali. Oggi se torni indietro non puoi che essere perdente. Siccome sei in comunicazione, in un mondo di reti, i muri, soprattutto quelli mentali, sono un controsenso.

In ambito startup questo significa che non puoi riproporre il modello di crescita della PMI del dopoguerra con quello schema, con quel livello di sotto-capitalizzazione, sotto-managerializzazione (un problema che affligge ancora molte azienda italiane); con l’idea che il piccolo imprenditore ce la possa fare solo col mercato locale. Ugualmente sbagliato e anacronistico sarebbe, all’estremo opposto, confidare in un laissez faire senza regole.

Le separazioni da annullare

Il vero dramma che stiamo vivendo in questo periodo è la separazione fra il capitale degli anziani e il paese dei più giovani che non riceve fiducia. Che non riceve quindi la scommessa-investimento che serve per affrontare un mondo in trasformazione. Oggi un anziano non può dire a un giovane: ti do i soldi ma per fare quello che ho fatto io, quello che ha fatto mio nonno. In questo senso siamo un po’ quelli che non stanno finanziando le caravelle di Colombo e lo facciamo andare dalla Regina Isabella. Questo è lo scenario: abbiamo il marinaio, che ha una visione, ma per farsi finanziare deve andare altrove. Ecco, un sistema che si lascia sfuggire i Colombo non può vincere.

Un’altra netta separazione che si è venuta creare è quella tra mondo della produzione della ricchezza e mondo della cultura, ormai molto distanti l’uno dall’altro. È l’unione di queste due parti che fa la forza, non la loro separazione. Guardiamo al passato. La storia ci dice chiaramente che mai come allora, quando questi due mondi erano uniti, in piena sinergia, e non disgiunti e contrapposti, il nostro paese esercitò una così grande influenza economica e culturale. Che tornino i mecenati allora, a finanziare nuova impresa. Questa è la relazione virtuosa fra il patrimonio e i talenti.

D’altra parte, che cosa possiamo offrire al mondo? Qual è il nostro bene più prezioso, il nostro asset principale? La cultura ovviamente, un valore che si può e si deve inserire in un’economia di rete oltre i limiti e i confini di un territorio geografico e statale. Non solo prodotti tipici, prodotti d’origine, beni e risorse fortemente dipendenti dalla terra quindi, ma un modo di pensare che trae valore da quella terra, che viene codificato e si fa “software”. Solo come tale potrà allora essere riprodotto, esportato, diffondersi nella rete e diventare flusso.

La cultura è il software

La cultura, la civilizzazione italiana quindi come software. Dobbiamo puntare e investire sul software dell’italianità nel mondo. Da qui l’importanza degli istituti di cultura e di lingua e cultura italiana all’estero. Se si continua a ragionare in termini di confini, quindi di hardware (territorio), realtà come Cina e USA vinceranno sempre. Perché, molto banalmente, hanno confini più grandi. Se invece si ragiona in termini di software e di reti, si può pensare di distribuire questo software nelle reti e attraverso le reti e in questo modo prescindere o comunque non dipendere unicamente dalle dimensioni territoriali e dai confini. L’italianità potrebbe essere così costruita in maniera molto più forte.

Vediamola in questo modo. Investire in startup significa investire nelle persone. Le persone sono legate a una cultura, a una civilizzazione, a un sapere. Restando sul piano della metafora del software, il core, il sistema operativo è la cultura, la civilizzazione; il sapere tecnico, il know how invece sono degli applicativi che cambiano e si sostituiscono nel tempo perché sono contingenti. Se questo core viene coltivato, sviluppato, rafforzato, se l’Italianità diviene l’Android del sistema, questo sistema lo si può, se non controllare, perlomeno cominciare a gestire meglio. Il che significa essere più competitivi, ricoprire un ruolo di maggior rilievo, avere voce in capitolo. Conta lo share of mind mondiale di quello che rappresenti come cultura, prima che la tua dimensione territoriale, di confini.

La sfida è culturale, è verso l’apertura, non verso la costruzione di muri o il ripiegamento su capricciosi e anacronistici sentimentalismi nazionalistici. Il mio timore è che questo discorso non sia affatto compreso e sia impopolare anche politicamente.

Insomma, ci troviamo di fronte a una grandissima sfida, che è la sfida della governance mondiale: come regolare i flussi di capitali, i flussi di persone, i flussi di merci. Badiamo bene: come regolarli, non come impedirli. In questa sfida l’Italia può ricoprire un ruolo importante. Ha in potenza le risorse, ma per farcela è d’uopo un salto culturale e politico – tenendo conto che la politica esprime la società, non viceversa. Serve allora mantenere vivo l’amore, la cura e l’interesse per un patrimonio intangibile e fragile: quello della cultura, della civilizzazione italiana, che, ripeto, è poi l’asset principe su cui il nostro paese può giocarsi la partita all’interno dei flussi e delle reti globali e assurgere così a un ruolo di responsabilità attiva e propositiva nella governance mondiale. Ruolo che, per dimensioni territoriali, non potremo mai avere come potenza militare o economica. Possiamo invece competere sulla capacità di influenza, che poi chiaramente avrà anche dei riflessi economici. Perché in un sistema di reti, essere un epicentro di influenza culturale chiaramente ha valore. Se sei una delle software house del mondo, uno dei produttori del software che fa pensare il mondo, allora sei automaticamente in una posizione di rilevanza.