‘Digital Rethinking nel Banking e Finance’: tanti spunti dall’Osservatorio PoliMi sul fintech in fermento.

A che punto siamo con il fintech, ovvero l’irruzione del paradigma digital nel mondo delle istituzioni bancarie e finanziarie? Dall’Osservatorio Digital Finance della School of Business del Politecnico di Milano arrivano, come sempre, tante indicazioni. Partiamo dalle banche e dal ruolo che hanno o che dovrebbero avere all’interno di questo processo di digitalizzazione: «l’innovazione digitale per le banche va ben oltre la sola tecnologia. Si tratta di una vera rivoluzione del modo di fare banca, del modo di servire i clienti, del modo di funzionare dei processi operativi che richiede anche un nuovo mindeset culturale». Le conclusioni del report dell’Osservatorio sono chiare. La via percorribile è una sola: adattarsi o soccombere. Facile a dirsi, per nulla scontato quando si tratta di muovere o di mettere mano a processi e istituzioni vincolati dall’onere di legacy pachidermiche. Per questo motivo, nonostante le opportunità di una simile congiuntura siano cristalline e sotto gli occhi di tutti, «lo scenario della digitalizzazione dei servizi finanziari non è uno scenario favorevole». Parole di Stefano Preda. Neanche l’entrata in vigore della direttiva europea PSD2 che legifera in materia di pagamenti digitali sembra rappresentare, di fatto, un driver sufficientemente potente per smuovere i grandi incumbent. «Vedono più opportunità soggetti terzi non bancari», sottolinea Paolo Geroli, Payment Business Analyst di Sopra Steria. Ad ogni modo, per l’adeguamento alla normativa c’è tempo fino al 2018; col senno di poi sarà più facile trarre delle conclusioni.

Resta, ed è di fondamentale importanza, la necessità di riorganizzare i processi interni. «Le banche si muovono per procedure, non per conto dell’iniziativa dei singoli», ci fa notare sempre Stefano Preda. Quindi, più che un cambiamento nel top management e nelle strategie di governance, ancora prima che nello stack tecnologico, sarebbe opportuno «portare disruptiveness all’interno delle strutture dei processi organizzativi» (Marco Folcia, associate partner di PwC). Anche perché sono le stesse banche a riconoscere una certa incapacità di mettersi in grado di competere o di rimanere competitive, considerato che oggigiorno la profittabilità si è notevolmente ridotta, in primo luogo a causa di una contrazione del margine di interesse e quindi dei ricavi.

C’è poi anche un problema infrastrutturale, come sottolinea Matteo Rossanigo di CheBanca: «All’estero nei governi parlano di fintech, qui…»

La soluzione? Ce ne sono tante. Fra tutte, co-petizione ma soprattutto cooperazione con «agenti terzi più agili», in linea con un trend culturale sempre più evidente («l’azienda corporate deve costruire intorno  a sé una rete di startup partner da accompagnare, quasi in un legame simbiotico, nello sviluppo del proprio core business»). Da una parte infatti i vecchi istituti hanno la possibilità di smuovere grandi investimenti. Ma non hanno le competenze. Qui entrano in gioco le stratup fintech, supportate sul piano della regolamentazione dall’entrata in vigore della PSD2 e abilitate ad un dialogo sempre più efficace e costruttivo dalle e attraverso le infrastrutture API. Uno strumento fondamentale per gestire il cambiamento in atto e che in questo scenario trovano un terreno particolarmente fertile, assurgendo così al ruolo di aggregatori di soggetti: di nuovo, da una parte i grandi player con i loro volumi e le loro masse critiche, la fiducia di una clientela ormai consolidata e l’enorme potenziale derivante da quello che in gergo viene chiamato “oro nero digitale”, una mole impressionante di dati accumulati nel corso degli anni, un grande giacimento di big data (o smart data) che «devono solo essere scovati, estratti, raffinati da organizzazioni adeguate in grado di metterli a valore in tutti i processi aziendali»; dall’altra le giovani startup del fintech, enti minori ma più dinamici, portatori sani e propositivi di asset tecnologici e per questo acceleratori di innovazione. Si guarda quindi con particolare favore alle stratup che portano collaborazione prima ancora che a quelle che portano disruption.

Ovviamente non si butta via nulla. Su questo Roberto Tognoni di Reply è stato chiarissimo: «bisogna rivalorizzare le risorse e le persone interne che conoscono il proprio mestiere. Solo allora è utile e ha senso guardarsi intorno, collaborare.»

Gli asset tecnologici del fintech

Parlando di asset tecnologici, impensabile non soffermarsi sul tema blockchain. Per molti è sempre meno una bolla e sempre più la vera tecnologia disruptive del presente ma soprattutto del futuro – non a caso viene definita l’internet 2.0. Trova forza in una versatilità applicativa estrema e nella possibilità di rivoluzionare quasi tutti gli ambiti in cui verrà adottata.

Una tecnologia blockchain, per esempio, abiliterebbe alla fruizione di una moneta di scopo programmabile a livello sistemico in cui le regole di spendibilità del denaro sono inscritte nella moneta stessa. Uno strumento di controllo potentissimo, se si pensa che una moneta simile mi permetterebbe di comprare alcuni beni ed altri no – lo stesso denaro nella mani di soggetti diversi acquisirebbe un differente potere d’acquisto. Quindi monete di scopo, criptovalute, valute complementari. E oltre alle classiche soluzioni tipicamente finance (p2p payment, currency exchange, trading, capital markets), smart contracts e trading delle commodity energetiche.

E ancora, gli ambiti di applicazione esplorati sono molti: Conio è una startup che crede nella moneta privata come fattore di stabilizzazione sul lungo termine. Gestisce pagamenti tramite bitcoin, valuta che è stata spesso oggetto di critiche in passato, subendo gravi danni d’immagine per l’uso non sempre cristallino, a volte oltre i limiti della legalità, che ne è stato fatto. Con una value proposition basata sulla semplicità, sulla sicurezza e sulla compliance, garantisce all’utente “comune” (i non tecnici, i non nerd) un servizio affidabile e trasparente.

Everledger, altra stratup fintech, sfrutta il potenziale insito nella tecnologia blockchain per certificare la provenienza e l’identificazione di beni di lusso quali i diamanti – quindi per tracciarne lo storico oltre che lo stato attuale. In questo modo è possibile assicurare direttamente il bene stesso, non solo il proprietario – una soluzione, questa, atta a contrastare un problema diffuso e oneroso come quello delle frodi assicurative.

Meritano senz’altro una menzione anche le altre due startup rappresentate al convegno: Euklid, che integra in una soluzione innovativa e costumer centered il paradigma blockchain a supporto di un sofisticato algoritmo di AI per il trading, e Tallysticks, attiva nell’invoice financing.

Due però sono le industry su cui l’impatto delle blockchain, almeno nel breve termine, sarà maggiore. Gli esperti dicono IoT e insurtech. In questo caso l’esempio può essere quello di un registro che certifichi l’indice di sinistrosità di un guidatore e che di conseguenza permetta l’accesso a classi di merito più convenienti per un utente davvero meritevole. Gli attuali metodi di conteggio sono spesso poco indicativi della reale abilità del guidatore se non addirittura penalizzanti.

Al centro del dibattito anche il tema robo advisor, in relazione all’asset e wealth management (e, a tal proposito, è bene ricordare come «l’Italia sia un paese in crisi che nuota in un mare di risparmi. La ricchezza diminuisce, il motore industriale è fermo, la disoccupazione aumenta, ma intanto un fiume di denaro contante si accumula in banca»).

Anche in questo caso possiamo dichiararci in linea con quanto emerso nel corso delle tavole rotonde: i modelli fintech che domineranno il mercato saranno i modelli ibridi (componente umana più robo). Lo abbiamo sostenuto in un recente articolo, dove, tra l’altro, abbiamo anche sottolineato «la possibilità di utilizzare le piattaforme di robot advisory come degli strumenti di “iniziazione” alla gestione del risparmio; una valenza formativa intrinseca alla natura di un servizio che acquista così un particolare appeal anche per chi si affaccia per la prima volta al mondo della pratica finanziaria e non ha quindi un expertise consolidato o comunque sufficiente a intraprendere questa strada in completa autonomia.»

Tutte le riflessioni e le considerazioni che sono state fatte convergono, in ultimo, in una semplice quanto elegante chiosa con cui si è chiuso il convegno fintech: occorre impregnare il business di Digital, e non usare il Digital per fare business. Serve quindi un nuovo mindset culturale. Questa è la lezione che ci portiamo a casa.