Per la Festa della Donna 2022, regaliamo cambiamento sotto forma di cultura 

da | Mar 8, 2022

Il momento è arrivato: 8 marzo 2022

Ci risiamo. Oggi è la giornata internazionale della donna. Oggi si corre a comprare rametti di mimose da dare alle donne che conosciamo. Dal fiorista o al supermercato, saranno già impacchettate in conetti di plastica rumorosa stretti alla base da un nastrino colorato. Spenderemo due, cinque, massimo dieci euro. Le consegneremo alle donne vicino a noi: mogli, madri, figlie, amiche e colleghe.  

I feed delle aziende sui social si riempiranno di post female-friendly accompagnati da hashtag specifici, cogliendo l’occasione dell’ennesimo argomento di tendenza per creare flow ai loro siti web e mettersi in risalto. Lo faranno per l’8 di marzo come lo hanno fatto per Natale, per la giornata internazionale dell’amicizia o per la giornata mondiale della pizza. Nel 2022, sembra esserci una festa per tutto e ogni giorno è speciale per qualche motivo.

Per certi versi, questo fenomeno è un’arma a doppio taglio. Da un lato, è giusto e positivo che la società globale sia sempre più cosciente e consapevole di aspetti e questioni da mettere in risalto e di cui parlare. Dall’altro, il rischio è quello che il significato di giornate importanti come quella della donna venga appiattito e che gli scopi di questo anniversario vengano confusi e ridotti a un semplice ricordo del passato, osservato distrattamente tra la giornata del colore e quella dell’hamburger.  

Tant’è che spesso, dopo aver fatto il post o regalato la mimosa, si torna a vivere le vite di sempre, sicuri del fatto di aver onorato la figura della donna nel suo giorno speciale. In realtà, non ci siamo neanche chiesti cosa si festeggi, perché si festeggi e su cosa questa giornata dovrebbe darci da pensare.

Giornata Internazionale della Donna 

La tradizione della Giornata Internazionale della Donna trova le sue radici in due proteste femministe a New York: una prima nel 1857 da parte delle lavoratrici del settore tessile e una seconda nel 1908. Qui, 15 mila donne scesero in strada per protestare contro le condizioni di lavoro disumane in cui si trovavano. Nel 1910, la socialista Clara Zetkin propose la Giornata della Donna, una celebrazione internazionale con cadenza annuale che potesse farsi carico dell’avanzamento dell’emancipazione femminile. La politica prevedeva un percorso in salita volto a portare le donne verso vette sempre più alte, sensibilizzando e istruendo la società globale verso obiettivi più egalitari.  

Così fu per gran parte del 20esimo secolo: sempre più nazioni aderirono alla Giornata Internazionale della Donna. Arrivarono quindi i primi, grandi risultati, come l’introduzione del diritto di voto, l’accesso all’istruzione pubblica e universitaria, riforme per migliorare le condizioni di lavoro.  

Se con il nuovo millennio l’interesse globale sembrò andare scemando, nuove associazioni nacquero sulla scia della globalizzazione e con la nascita della società dell’informazione, ravvivando il fuoco femminista. Tra queste, International Women’s Day è una delle prime, impegnata da più di vent’anni in una serie di progetti e iniziative di inclusione e parità di genere. Dal 2010, poi, perfino le Nazioni Unite creano un ramo distaccato specificamente per le donne, UN Women, che si dedica all’empowerment femminile a livello globale, accelerando il cambiamento negli stati membri.

Mai come negli ultimi anni si è parlato di parità di genere, a livello accademico come sociale. Non soltanto associazioni, ma industrie e altri attori dell’economia globale sembrano sempre più coinvolti nel dialogo sulla questione femminile. Eppure, se guardiamo ai grandi risultati del passato, oggi viene da chiederci: come stanno andando davvero le cose ora? Stiamo contribuendo al cambiamento, o stiamo solo parlando di più una questione che rimane stagnante? Questo dibattito sempre più esteso è spinto da un interesse genuino o è guidato da logiche algoritmiche di SEO? Come possiamo cambiare le nostre parole e accompagnarle con azioni concrete e consistenti, che ci salvino dal dannatissimo pinkwashing?  

Ancora una volta, la risposta è la stessa: osservare i problemi in maniera trasversale, non limitarsi a punti di vista angolati che portano inevitabilmente a soluzioni parziali, se non inutili. 

Donne, carriera ed emancipazione

Consideriamo uno dei concetti forse più connessi con l’emancipazione femminile: la carriera. In questo senso, però, è bene chiarire che cosa intendiamo con carriera. Sarebbe infatti estremamente riduttivo e altrettanto ingiusto suggerire che le donne emancipate siano solo quello che riescono a fare carriera, a diventare donne di successo. Ciò che vogliamo comunicare usando questo termine, invece, è l’unione di percorso di studi e occupazione. Questi diventano indicatori di emancipazione nel momento in cui le donne hanno le stesse opportunità di scelta e realizzazione rispetto agli uomini. Che si tratti di fare l’astronauta, la casalinga, la politica o l’artista, l’emancipazione arriva quando le donne non incontrano più differenze, impedimenti o stereotipi che, invece, vengono risparmiati agli uomini. Al contrario, le opportunità, le possibilità di realizzazione e i mezzi sono gli stessi, indipendentemente dal sesso.  

Intuitivamente, anche se la parità di genere è uno degli ambienti più frequentati dalle conversazioni globali sull’inclusività, ci accorgiamo tutti come non sia davvero così. Se però cerchiamo di analizzare nel dettaglio la situazione, per scoprire le vere dinamiche di questa diversità tra generi, potremmo comunque rimanere sorpresi.

Step 1: lo stereotipo infantile e l’accesso all’istruzione

Partiamo quindi dal principio, dai giocattoli della nostra infanzia. Fin dalla più tenera età siamo vittime di un bias rispetto a quali debbano essere i nostri interessi, le nostre aspirazioni. Le bambine hanno bambole e i giochi incentrati su mansioni domestiche, mentre per i bambini ci sono le macchine, le statuine di supereroi, il pallone. È una decisione genitoriale prevalente inconscia o apparentemente innocua, supportata dalla comunicazione di marketing dei determinati giocattoli e a generazioni di stereotipi internalizzati.  

Tuttavia, chi ha fatto studi culturali lo sa bene: ben poco ostacola l’integrazione (di genere, sociale, di etnia, …) come lo stereotipo. Si tratta di una semplificazione che associa determinate caratteristiche di una persona, fisiche e non, a determinati comportamenti, interessi, desideri. Internalizzate e radicate nella cultura di ogni popolazione, queste semplificazioni sono pericolose, perché riducono la meravigliosa complessità dell’esistenza umana ad una serie di preconcetti. Questi, talvolta, fanno apparire la discriminazione come qualcosa di accettabile, come l’interpretazione corretta della vita intorno a noi. Non sempre i nostri corpi o il nostro aspetto corrispondono alle storie che si dicono di noi. Un corpo stereotipato è un corpo privato del diritto di essere unico, e spesso questo processo passa inosservato anche da parte delle vittime, che vivono internalizzando gli stereotipi che subiscono.  

Così, dai giochi si passa all’istruzione. Nell’era della globalizzazione, sono ben 129 milioni le ragazze che non hanno accesso all’educazione, a cui viene privato il diritto di conoscere, di crescere intellettualmente, di emanciparsi. Perfino quando si può studiare, poi, c’è disparità a livello globale: 

  • Solo il 49% delle nazioni ha raggiunto la parità di genere nell’educazione primaria. 
  • Solo il 42% ha raggiunto la parità a livello secondario. 
  • Un pericoloso, bassissimo 24% ha raggiunto la parità di genere a livello anche universitario. 

Alla base del divario ci sono problemi di povertà, situazioni di conflitti ma anche stereotipi culturali. Si preferisce mandare a scuola i figli maschi, lasciando che le bambine aiutino le madri a gestire la casa e provvedere per gli uomini. Indipendentemente dalle cause, però, prime barriere a livello macro relative all’accesso allo studio pongono già difficoltà per l’integrazione delle donne nella società globale: per loro è più difficile perseguire, realizzare, diventare. Uno svantaggio insensato che non fa altro che penalizzare lo sviluppo dell’intera umanità, sottraendo forza motrice all’avanzamento della conoscenza umana. 

Step 2: il divario scientifico/umanistico e di opportunità per le donne

Quando poi l’accesso c’è, continuano gli stereotipi: le materie scientifico-matematiche sono più da maschi e quelle umanistiche più da femmine, il che porta alla scelta di specifici indirizzi secondari che aumentano il divario di genere. Le poche ragazze che sviluppano la propria istruzione nell’ambiente STEM vengono viste come peculiari rarità, mentre le materie umanistiche sono popolate prevalentemente da studentesse. Uno studio condotto da Almalaurea in Italia nel 2021  ha portato alla luce i numeri di questa disomogeneità.  

Fonte: AlmaLaurea, indagine sul Profilo dei Laureati (2021)

Osserviamo i valori relativi a ciascun indirizzo mentre pensiamo all’immagine stereotipica della donna come angelo del focolare, immagine materna, protettiva, che si occupa della crescita e dell’educazione dei figli e della cura della casa. Le corrispondenze tra le scelte di percorso universitario e questo stereotipo dovrebbero darci da pensare, specialmente perché questi sono dati del 2020. I dati di una società al suo massimo livello di avanzamento, globalizzazione e interesse (forse a questo punto solo apparente?) verso le questioni di genere e integrazione. 

Tuttavia, questi non sono gli unici dati su cui dovremmo riflettere. L’indagine di Almalaurea scende infatti nello specifico, dipingendo un divario ancor più dilato. Ad esempio, anche se le donne performano meglio (voto di laurea medio pari a 103,2/110 vs. 102,1/110 per gli uomini) e diversificano maggiormente la loro esperienza di studio con tirocini, lavoro ed esperienze all’estero, l’esito occupazionale è in favore degli uomini: 72% vs 67,5% per lauree di primo livello e 72,9% vs 64,4% per lauree di secondo livello. Anche lo stipendio ne risente, con le laureate di primo livello che guadagnano il 12,8% in meno rispetto ai laureati, e il 16,2% in meno nel caso di lauree di secondo livello. Come se non bastasse, la ciliegina sulla torta la mette il tasso di occupabilità: in aree come le discipline STEM, infatti, si possono ancora notare diverse possibilità offerte ai laureati, rispetto alle laureate. 

Fonte: AlmaLaurea, Indagine sulla Condizione Occupazionale dei Laureati (2021)

Step 3: sul lavoro, la situazione delle donne non cambia (o forse peggiora)

Arriviamo quindi all’ultimo step sul percorso verso l’emancipazione: la vera e propria occupazione. Come abbiamo visto prima, ci sono stereotipi in merito alla scelta degli indirizzi di studio, unitamente a discriminazioni anche di studentesse che costituirebbero profili perfino migliori dei candidati maschili. Intuitivamente, la situazione non cambia molto quando si osserva il contesto lavorativo. Anzi, la logica è molto simile.

Malgrado le donne siano più produttive degli uomini, abbiamo visto come anche in Italia gli stipendi differiscano significativamente. Con la pandemia e le conseguenti dinamiche di smartworking, poi, lo spazio della vita di casa si è intrecciato con quello del lavoro. Immancabilmente, questo ha avuto conseguenze più forti sulle donne, che sugli uomini. Sono loro, infatti, a venire interrotte più spesso degli uomini, e in modi più diversi: intrusioni, distrazioni, multitasking, distrazioni a sorpresa e così via. L’insieme di queste interruzioni è ritenuto essere un’aggravante dello stress lavorativo introdotta dalla pandemia nei confronti delle donne, messe maggiormente alla prova rispetto ai loro colleghi uomini.

Pensiamo infine alle posizioni apicali, al management. C’è una grande vastità di di ricerche e casi studio che confermano che le donne costituiscano leader migliori, sia durante periodi di crisi che in generale. Perché, allora, solo il 26% di donne occupa delle posizioni apicali del mondo? Tra l’altro, questo dato scende al 21% nell’eurozona e fino al 18% in Italia. Cosa ci siamo persi, nel passaggio dalla conversazione all’azione concreta?

Quest’8 di marzo, regaliamo qualcosa di più: la normalità

Che cosa fare allora? Mimosa sì o mimosa no, questo 8 di marzo? Facciamo il post, lanciamo il thread o lasciamo perdere? Il dibattito femminista sull’integrazione potrebbe lasciarci un po’ confusi: si parla delle donne, ma non si parla delle donne, un gesto può essere sia giusto che sbagliato, ogni azione è interpretabile in modi diversi.

Ma c’è un modo per essere veramente promotori di integrazione e parità di genere, sul posto di lavoro come nella vita di tutti i giorni: normalizzare. Come fare? Noi qualche suggerimento ce l’abbiamo:

  • Se siamo genitori o insegnanti, lasciamo che i nostri piccoli seguano le proprie passioni e supportiamoli senza inscatolarli in stereotipi che non hanno più significato.
  • Se siamo grandi decisori, cambiamo la società con gesti concreti, come ad esempio il concedo di paternità.
  • Se siamo direttori d’azienda, pareggiamo gli stipendi relativi alla stessa posizione, ed equalizziamo il nostro board tra i generi. Diamoci da fare per fornire gli stessi mezzi e le stesse opportunità di sviluppo della carriera, in modo da riparare quel “gradino rotto” che tiene le nostre donne un passo indietro rispetto agli uomini sul luogo di lavoro. 
  • Se siamo project manager, diamo più responsabilità e indipendenza a donne con buone idee, lasciandole andare avanti senza forzare la nostra interpretazione sui loro progetti, ma guidandole verso la realizzazione del loro vero potenziale.
  • Se siamo colleghi, lasciamo perdere i commenti sessisti e concentriamoci sul valore che portano all’ambiente di lavoro. Interpretiamo il loro parere in termine di qualità, non come un attacco alle nostre capacità o performance. Chiediamoci: come reagirei, se a dirmi queste cose fosse un uomo?
  • Se siamo donne, sforziamoci di capire e riconoscere quando siamo vittime di discriminazione e parliamone, confrontiamoci. Perché un altro grande ostacolo alla parità di genere è l’internalizzazione di stereotipi sessisti, quasi come se ci meritassimo di essere trattate così, in un’ottica di boys will be boys. La realtà è che gli uomini non sono “fatti così”.

L’unico modo per chiudere la questione della parità di genere è smettere di considerare le donne in maniera diversa rispetto agli uomini. La normalizzazione deve essere il nostro principio guida e, dove non riusciamo a prendere una decisione, andiamo all’origine dei nostri dubbi. Chiediamo alle donne come agire, senza paura di sembrare ignoranti, ma con il desiderio sano e genuino di costruire una società di vera, profonda, sincera parità di genere.

Elena Masia
Elena Masia
Con studi ed esperienze di lavoro internazionali, è una poliglotta in giro per l'Europa con una sola missione: trovare le parole giuste per comunicare nel terzo millennio.

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