Le opzioni al vaglio del Senato USA per tutelare la privacy dei cittadini e combattere la disinformazione. Non tutte piaceranno alle Big Tech.

Il 30 luglio scorso il magazine Axios ha diffuso un «policy paper» ufficiale del Senato americano che affronta tre temi sempre più caldi nel dibattito politico degli ultimi mesi: la tutela della privacy personale, la lotta alla disinformazione online e la promozione di un mercato competitivo nell’ecosistema digitale, oggi dominato dalle Big Tech.

Il documento (disponibile qui) è stato preparato dal senatore democratico Mark Warner, vicepresidente della commissione Intelligence, e si colloca in un momento non facile per le grandi piattaforme che intermediano l’informazione online, come Google, Facebook e Twitter. L’accusa, mossa sempre più spesso dai politici e dall’opinione pubblica, è di avere creato un ecosistema chiuso alla concorrenza e governato da algoritmi disfunzionali, che promuovono fake news, divisione sociale, manipolazione delle coscienze.

Le Big Tech sono accusate di approfittare della loro posizione dominante per lucrare sui contenuti prodotti dai media tradizionali. Il tutto sfruttando con grande spregiudicatezza i dati personali dei cittadini (americani e non). In questo senso neppure Amazon se la passa benissimo. Il colosso di Jeff Bezos è a sua volta accusato di monopolizzare il commercio online e di detenere una quantità enorme di dati, relativi ai comportamenti e ai gusti degli utenti, sfruttandoli secondo modalità tutt’altro che trasparenti.

Fine della luna di miele

È come se, per molti versi, la lunga luna di miele fra politica americana e Big Tech fosse terminata. E il documento del senatore Warner appare come lo specchio di questo nuovo clima. Non solo: Axios fa notare che l’esito delle prossime elezioni generali, il 6 novembre 2018, potrebbe causare un ulteriore deterioramento del clima per Google, Facebook & C. Le quali, intanto, in Europa devono fare i conti con il GDPR.

Warner non è un politico qualunque. Esponente di punta del Partito Democratico, è stato governatore della Virginia dal 2002 al 2006. Nel 2008 il suo nome circolò fra i nominabili democratici alle elezioni presidenziali. Fu lo stesso Warner a rinunciare alla candidatura, sembra per motivi personali.

I bias di Warner

Soprattutto, quella di Warner è una biografia tutta segnata da significative esperienze nel mondo delle telecomunicazioni, che ne hanno fatto uno dei politici più ricchi d’America. Circostanza che non lo rende un soggetto del tutto neutrale. Di lui si ricorda l’ingente fortuna economica accumulata – prima che si dedicasse alla politica – come intermediario di licenze di telefonia mobile. In seguito, attraverso il fondo Columbia Capital, guidò una serie di investimenti nell’hi-tech, fra cui quello in Nextel (oggi parte Sprint). Warner è stato infine tra i fondatori di Capital Cellular Corporation.

Warner non mai stato tenero nei confronti dei giganti della comunicazione online. Le sue posizioni su privacy, disinformazione e concorrenza nel contesto dei social media sono note da tempo. Nell’ultimo anno, poi, il senatore della Virginia ha svolto un ruolo chiave in seno alla commissione d’inchiesta sulle interferenze russe nelle elezioni presidenziali, che hanno evidenziato gravi negligenze di Facebook e Twitter.

Tante proposte, non tutte attuabili

Le proposte contenute nel documento non sono tutte chiare. Alcune appaiono difficilmente attuabili nel breve periodo, mentre altre sembrano superate o ingenue. Tuttavia, il «policy paper» rappresenta, nel suo complesso, un segnale molto chiaro dell’atmosfera che si respira nel Senato americano. Del resto, sono numerosi i politici che hanno dichiarato di condividere le preoccupazioni di Warner.

Nella premessa del documento si sottolinea l’esigenza di definire nuove forme di controllo sulle attività delle grandi piattaforme di social networking: «Le dimensioni e la portata di queste piattaforme ci impongono di garantire un controllo adeguato, la trasparenza e la gestione efficace delle tecnologie che in larga misura sono alla base della nostra vita sociale, della nostra economia e della nostra politica».

In particolare, Warner formula diverse proposte. Alcune di esse risulteranno senz’altro indigeste per le Big Tech americane. Nel documento si parla innanzi tutto della necessità di finanziamenti federali per i programmi di alfabetizzazione mediale. Tali programmi potrebbero aiutare i consumatori a gestire in modo critico le informazioni disponibili sulle piattaforme online.

Lotta ai bot

Il documento prende poi in considerazione la possibilità di imporre alle piattaforme web di rendere riconoscibili gli account «artificiali» – i famosi bot che tanta parte hanno avuto nel Russiagate – e di identificare chiaramente quelli autentici. A carico delle piattaforme inadempienti si ipotizzano pesanti sanzioni.

Non solo: le piattaforme potrebbero essere riconosciute legalmente responsabili per atti di diffamazione, violazione della privacy e divulgazione pubblica di fatti privati in tutti i casi in cui non riescano a rimuovere video e audio contenenti cosiddetti «deep fake». Si scorgono, in questo passaggio, alcune analogie con quanto contenuto nella proposta di direttiva europea sul diritto d’autore. Com’è noto, in luglio il Parlamento di Strasburgo ha boccato la discussione, che riprenderà alla prossima seduta plenaria di settembre.

Un capitolo del documento di Warner si occupa del diritto di accesso ad alcuni servizi online considerati essenziali, come Google Maps. Si afferma che l’accesso dovrebbe essere garantito a condizioni «eque, ragionevoli e non discriminatorie».

Nuovi poteri per i consumatori

Il documento di Warner auspica il varo, anche negli Stati Uniti, di norme sulla privacy ispirate al GDPR europeo, con l’obiettivo di garantire agli utenti un maggiore controllo sull’utilizzo dei loro dati da parte dei titolari del trattamento. Inoltre, per aumentare la visibilità della concorrenza le piattaforme potrebbero conferire un valore monetario ai dati di un singolo utente. Questo è uno dei passaggi meno chiari del documento, ma allo stesso tempo è uno di quelli che potrebbero allarmare maggiormente le Big Tech.