Realtà virtuale per salvare il mondo, o almeno per rendere tutti più sensibili a certe tematiche. Gabo Arora ospite di MtMGuru racconta UNVR.
Può la realtà virtuale aiutare a salvare il mondo? Detta così, l’idea può lasciare perplessi. Eppure questo è l’obiettivo di UNVR il progetto lanciato dalle Nazioni Unite che punta a rivoluzionare il modo in cui vengono percepite le crisi umanitarie.
Ieri alla Triennale di Milano, grazie a Meet the Media Guru, abbiamo ascoltato le parole del fondatore di UNVR Gabo Arora. Direttore creativo e senior advisor delle Nazioni Unite. Con un passato da regista specializzato in realtà virtuale a 360 gradi non poteva che portare innovazione nel modo in cui oggi le United Nations raccontano ciò che succede nel mondo.
Clouds over Sidra fa proprio questo. Catapulta lo spettatore dentro un campo profughi in Giordania. Lo abbiamo provato, abbiamo indossato i visori e messo le cuffiette per entrare completamente nel film. Difficile dire come ci si senta. I primi secondi ci si guarda attorno, letteralmente a 360 gradi, per esser sicuri di non perdersi niente. Si prova a capire da dove arrivano le voci e in quale angolo stia succedendo qualcosa. Non siamo abituati a guardare un film in questo modo. “Molti filmaker sostengono che sarà impossibile sostituire davvero i film con una vera e propria esperienza in VR. Diventa difficile decidere cosa lo spettatore dovrà guardare o notare, e il problema è che non esiste certezza che lo faccia davvero. Magari starà girato dall’altra parte mentre succede qualcosa di fondamentale per il storia del film. Questa è la sfida più grande.” racconta appunto Gabo.
Nel suo film ad accompagnarci alla scoperta delle varie realtà quotidiane del campo è Sidra, una bambina siriana di 12 anni, che racconta con la sua voce e con la sua presenza cosa significhi scappare dalla guerra e ritrovarsi a vivere in un “non-luogo” che nessuno degli abitanti riconosce come proprio.
Ad un certo punto della visione iniziamo a sentirci davvero parte dell’azione, tutto d’un tratto passiamo da trasparenti osservatori a protagonisti. Chi abbiamo davanti ci guarda, ci rivolge la parola. Ci ritroviamo davanti all’entrata di una delle scuole del campo e i bambini che entrano in fila ci salutano, ci sorridono e si avvicinano per capire chi siamo, cosa siamo.
Ed è così che cambia tutto, non si è più spettatori passivi davanti ad un susseguirsi di immagini che vogliono raccontarci qualcosa ma diventiamo parte della storia, parte dello storytelling. Ci sembra di riscoprire dei sensi che ci eravamo dimenticati di avere. In questo un grosso aiuto è dato dall’audio 3d, o audio binaurale, che ci permette di percepire davvero cosa succede dietro di noi, sotto, sopra e non solo davanti agli occhi. Ci fa sentire immersi in un altro mondo. Nell’esperienza della realtà virtuale l’udito raggiunge un peso fondamentale che completa la vista e letteralmente “hacks our brain“. Immagini e audio a 360 gradi ci trasportano in un’altra dimensione in cui diventa difficile non provare sensazioni, non provare empatia. Ci si sente davvero presenti.
“Sapete perché mostrare la morte, l’orrore, la sofferenza non paga? Le immagini che creano uno shock emotivo improvviso ammazzano lo storytelling, ci portano a distaccarci. L’immaginazione viene paralizzata e senza immaginazione non c’è empatia. Se vogliamo davvero far entrare le persone dentro la nostra storia dobbiamo lasciar loro lo spazio per completare la narrazione con la loro mente.”
Tecnologia che crea empatia = storytelling + VR. Ed è proprio creare empatia l’obiettivo più alto di chi lavora nell’ambito sociale e punta a sensibilizzare quante più persone possibili su temi delicati.
La virtual reality a quanto pare paga in questo senso. Lo dimostrano i dati. In Canada e in varie altre capitali mondiali gli stand delle nazioni unite in giro per le piazze sono stati dotati dei visori in modo da poter mostrare ai passanti gli 8 minuti di film diretti da Gabo. Risultato? Le donazioni immediate, a seguito della visione, si sono raddoppiate. Solitamente 1 persona su 14 che viene fermata dai volontari, che raccontano la situazione dei rifugiati mostrando foto, decide poi di donare. Grazie all’immersione nella realtà virtuale del campo profughi le persone a donare sono diventate 1 ogni 6. La domanda che si fa anche Wired è una: oltre a far bene per beneficienza la realtà virtuale riuscirà a cambiare anche la mente delle persone?
Molti la chiamano Social Innovation, per noi è molto semplicemente l’applicazione di nuove tecnologie in territori nuovi e poco battuti. Non siamo infatti davanti ad un videogame in cui possiamo giustificare i morti causati da una bomba ma potremmo invece ritrovarci all’interno di una casa sotto assedio a migliaia di chilometri di distanza da noi. E non si parla più di finzione ma di realtà virtuale che ci riporta a cosa sta succedendo realmente in questo momento in un altra parte del mondo.
La prima guerra mondiale è stata raccontata attraverso le fotografie. La guerra in Vietnam attraverso i filmati in TV. La guerra in Siria viene raccontata con i video su YouTube e Facebook. “La prossima guerra verrà mostrata in VR?” e “presto arriverà il Live VR nel bel mezzo di crisi umanitarie”, leggiamo durante lo speech di Gabo. Il livello di vicinanza mediatica con la lotta quotidiana vissuta ad Aleppo e la qualità dei contenuti (video HD girati e montati magistralmente) ci porta a pensare che questo possa succedere davvero, ma forse in quel caso vorremo evitare di ritrovarci ad indossare il visore.
Chissà se, molto presto, gli Oscar includeranno anche la categoria “Best 360°/VR documentary”.