Sovraccarico cognitivo, tecnostress, dipendenza. Parliamo dei rischi delle tecnologie con la psicologa e criminologa Isabella Corradini. Che ci racconta Programma il Futuro, iniziativa lanciata per diffondere lo sviluppo del pensiero computazionale e un uso più consapevole dell’informatica.
Torniamo a riflettere sui rischi delle tecnologie. Lo facciamo con Isabella Corradini, presidente del Centro Ricerche Themis e co-fondatrice del Link&Think Research Lab. Abbiamo incontrato Isabella Corradini durante l’ultima edizione romana della Social Media Week 2017. In quell’occasione le abbiamo rivolto alcune domande sugli aspetti socio-tecnici delle tecnologie dell’informazione e dell’educazione informatica (pensiero computazionale).
Psicologa sociale e criminologa, Isabella Corradini è esperta di tematiche di sicurezza, safety e security. Da studiosa, si occupa dei rischi delle tecnologie dal punto di vista non tecnologico e ha focalizzato la sua attività sul fattore umano e su metodologie di awareness. È attiva nel campo della comunicazione aziendale, insegna in corsi specialistici e master universitari ed è autrice di numerose pubblicazioni nazionali e internazionali.
Per l’editore Franco Angeli di Milano Isabella Corradini dirige una collana sul tema della reputazione. Edito dalla stessa casa editrice, ha curato il volume Internet delle cose. Dati, sicurezza e reputazione. Suoi sono la premessa e il secondo capitolo del libro, La dimensione umana e sociale dell’Internet delle cose. In esso Isabella Corradini affronta gli aspetti umani e sociali di tematiche legate alla sicurezza e ai rischi delle tecnologie. Al testo hanno contribuito, ognuno con il proprio punto di vista, anche Corrado Giustozzi, Alessandra Smerilli, Luca Rossetti, Corradino Corradi, Massimo Simeone e Marilena Tardito, Giampaolo Fiorentino e Carmela Occhipinti.
Abbiamo incontrato Isabella a Roma proprio per discutere dei rischi delle tecnologie in una prospettiva non tecnologica. Davanti a una tazza di tè, abbiamo cercato di capire che tipo di rapporto si crei tra le persone e le tecnologie, che cosa succeda con l’Internet delle cose, quali siano le sfide che si aprono per la sicurezza. E quale il ruolo dell’educazione.

Internet delle cose. Dati, sicurezza e reputazione (FrancoAngeli, 2017).
Isabella, quale scenario si apre per la sicurezza e quali riflessioni sui nuovi rischi delle tecnologie?
«Lo scenario che si apre è piuttosto articolato, dal momento che vede la fusione tra mondo fisico e virtuale. Sicuramente ci saranno molti benefici, ma poiché sono tanti coloro che parlano dei vantaggi, io preferisco concentrarmi anche sugli effetti meno positivi. Di solito, infatti, c’è sempre il rovescio della medaglia: come si dice, non tutto è oro quello che luccica. Mi chiedo prima di tutto: quante persone sanno cos’è l’Internet delle cose? A parte ovviamente coloro che lavorano in ambiti tecnologici o affini. Quello che emerge, o che viene trasmesso in termini comunicativi, è che l’Internet delle cose sia qualcosa destinato a migliorare la vita di tutti, anche nel privato quotidiano, grazie a elettrodomestici intelligenti.
Tuttavia, qualsiasi innovazione, soprattutto se di grande portata come quella in atto, apre inevitabilmente anche a riflessioni più critiche, almeno sotto il profilo umano e sociale. Davvero tutto questo migliora la nostra vita? Io faccio sempre il paragone con l’avvento della posta elettronica, che avrebbe dovuto semplificarci la vita, al punto da permetterci di avere maggiore tempo per noi stessi. Se da un lato è vero che la posta elettronica facilita molte operazioni e attività, è altrettanto vero che siamo arrivati al punto di essere sommersi da una quantità smisurata di e-mail e di stare attaccati ossessivamente a smartphone e tablet per non perderne una.»
Nel libro Internet delle cose. Dati, sicurezza e reputazione parli del potere delle tecnologie persuasive. Come può, secondo te, la tecnologia influenzare i nostri comportamenti al punto da decidere senza alcuna obiezione di concedere tutti i nostri dati, le nostre informazioni private e più intime?
«Ci sono interessanti studi sul potere persuasivo che hanno le tecnologie, in particolare quelle informatiche. Senza poi contare l’ampia letteratura sul tema della persuasione sociale. Nel testo ho riportato alcuni punti fondamentali del processo persuasivo, legandoli al contesto della Rete: semplificare e rendere tutto a portata di mano, “persuade” le persone sul fatto che tutto sia gestibile attraverso le tecnologie, anche regolare da remoto il funzionamento degli oggetti della casa. La semplificazione e la facilità di utilizzo dei dispositivi IoT, uniti alle opportunità di personalizzare prodotti e servizi, potranno costituire potenti fattori attrattivi. Le persone tenderanno a delegare alle tecnologie anche le più semplici attività, in parte per “pigrizia mentale”, senza considerare che la facilità di accesso ai servizi non è senza costi: si cedono i propri dati, i quali stanno diventando la vera moneta di scambio.»
Quanto siamo coscienti dei rischi delle tecnologie derivati dal sovraccarico nel loro utilizzo e come facciamo a raggiungere un livello di consapevolezza accettabile?
«Ecco, questo è un problema spesso sottovalutato. In particolare, dando per scontata l’utilità delle tecnologie digitali, non si può non considerare il rovescio della medaglia: si parla da tempo di rischi per la salute legati al sovraccarico di informazioni (information overload), di tecnostress, di tecnodipendenze, e sono ormai molti gli studi che confermano i rischi per la salute. Le tecnologie non sono né buone né cattive, lo è l’uso che ne fanno le persone.
Ci sono tipi di tecnologie troppo pervasive, e si continua ad andare avanti senza pensare alle conseguenze, o a pensarci quando ormai è tempo di correre ai ripari. Basti pensare che di recente alcuni ex dipendenti di due importanti aziende tecnologiche, come Facebook e Google, hanno lanciato la campagna Truth About Tech per sensibilizzare agli aspetti negativi dell’essere costantemente connessi. Queste, a mio avviso, sono le problematiche con cui ci si deve confrontare già da oggi. Sia nel privato, sia nei luoghi di lavoro.»
La campagna Truth About Tech di Common Sense e Center for Humane Technology: un’iniziativa per evidenziare, informare e divulgare gli effetti della “distrazione digitale” sulla salute di bambini e ragazzi.
Sul tema della sicurezza, o cybersecurity, con cosa ci si dovrà confrontare nell’immediato futuro? Non tanto dal punto di vista tecnologico, ma umano.
«Le sfide si fanno sempre più articolate. Quello che però mi lascia perplessa è che si continui a pensare che la cybersecurity sia un tema prettamente tecnologico. Lo è, ma solo in parte. Per capirlo basta farsi una domanda: perché ancora oggi, con tutte le innovazioni tecnologiche e i prodotti che abbiamo a disposizione, il problema sicurezza informatica s’è ingigantito?
Le aziende che producono soluzioni tecnologiche, come Spindox, fanno un gran lavoro. Ma devono anche essere consapevoli del fatto che non tutto è risolvibile attraverso le tecnologie, seppure siano indispensabili. Le tecnologie non sono l’unico rimedio, ma a volte vengono viste come tali. Come ben spiega il sociologo Morozov, che usa a tal proposito il termine ‘soluzionismo‘. A mio avviso sulla sicurezza informatica – o cybersecurity, se vogliamo usare un termine commercialmente attrattivo – siamo a un “punto di non ritorno”. L’aspetto culturale è prioritario ma tuttora non ben compreso. Se ancora assistiamo al dilagare di e-mail di phishing e all’adozione di comportamenti imprudenti nell’uso dei social network, come si può pretendere di essere preparati ad affrontare la sfida del “tutto connesso”, considerato che molte persone non sanno nemmeno di cosa si parla?»
Sottolinei l’importanza di lavorare sull’uso consapevole delle tecnologie digitali, potresti farmi un esempio applicativo?
«È necessario partire dalla centralità dell’essere umano e rafforzare quel concetto di consapevolezza volto a far comprendere l’importanza del proprio comportamento nella gestione della rete in sicurezza. Uso consapevole significa soprattutto uso responsabile. Bisogna formare e allenare all’uso consapevole delle tecnologie digitali fin dalla scuola, dal momento che ci si avvicina a esse in età sempre più precoce.
Cito spesso un progetto al quale sto collaborando da circa quattro anni, Programma il Futuro un’iniziativa realizzata dal CINI – Consorzio Interuniversitario Nazionale per l’Informatica – in accordo con il MIUR (Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca), che ha lo scopo di diffondere lo sviluppo del pensiero computazionale attraverso la programmazione (coding) in un contesto di gioco. Il messaggio di fondo è che bisogna imparare a diventare un consumatore consapevole agendo da protagonista, vale a dire: “non usare il tuo telefono solo per giocarci, programmalo!” In questo modo si apprendono le caratteristiche degli ambienti e delle tecnologie digitali.
Di recente, nell’ottica di coniugare informatica e consapevolezza il progetto progetto – coordinato per il CINI da Enrico Nardelli, professore di Informatica presso l’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata” – ha lanciato un’indagine, curata dal Centro Ricerche Themis, sull’uso consapevole delle tecnologie digitali. I dati hanno mostrato risultati interessanti, per esempio il fatto che, secondo il parere degli insegnanti intervistati, molti ragazzi ignorano o sottovalutano i rischi legati all’uso della rete, come il cyberbullismo, le molestie o le truffe on line. I risultati dell’indagine (leggi qui il comunicato stampa, ndr) ci hanno stimolati a sviluppare ulteriormente quest’area d’intervento.»
Ho visto il tuo telefono, non è uno smartphone e questo suscita curiosità, oltre a una certa simpatia. Ci chiedevamo, quindi: hai una passione per il vintage? O, scherzi a parte, si tratta di una scelta condizionata dalla tua esperienza e conoscenza?
«Confesso che mi piace il vintage! Ovviamente dispongo di altri strumenti per lavorare. Ma in realtà mi sono chiesta: chi ha detto che avere tutto in uno stesso dispositivo semplifichi la vita? Una volta avevo anch’io uno smartphone ma dopo averlo dimenticato più di una volta a casa ho rimpianto di non ricordare più un numero telefonico a memoria!»