Come sarebbe una casa senza uomini, accudita da robot? Come saranno le nostre case, dopo di noi? Fa un certo effetto rileggere oggi il racconto di Ray Bradbury There Will Come Soft Rains (1950, tradotto per la prima volta in italiano nel 1954 con il titolo Verranno le dolci piogge). Con intenso e disturbante lirismo Bradbury descrive l’interno borghese di una casa americana. Sono le sette del mattino del 4 agosto 2026: l’ora del risveglio, della prima colazione, dei preparativi per una nuova giornata di lavoro. L’effetto straniante della narrazione è fortissimo, perché l’appartamento sopravvive in mezzo alle rovine di una città postatomica, autogovernandosi. Ai “gesti” diligenti dei dispositivi domotici – che dovevano avere un sapore fantascientifico nel 1950, ma risultano addirittura banali ai giorni nostri – si contrappone l’assenza di esseri umani. Per chi suona la sveglia delle sette? A chi sta preparando il caffelatte e le fette di pane tostate la cucina robotica della casa? E chi dovrebbe ascoltare i pro memoria vocali della giornata (“Oggi è il compleanno del signor Featherstone. Bisogna pagare la rata dell’assicurazione, più le bollette dell’acqua, del gas e della luce”)?
Nulla ci viene detto, in modo esplicito, sulle ragioni per cui la casa è disabitata. Sappiamo solo che i sui dispositivi continuano a funzionare con caparbietà, come il tenero WALL-E del film della Pixar (Andrew Stanton, 2008), evidentemente debitore di Bradbury. In questo eludere una chiara spiegazione a proposito di ciò che è accaduto c’è una sorta di pietas narrativa: come se la voce narrante avesse stabilito che, per noi lettori, sapere tutto sarebbe stato troppo doloroso. Alla fine però capiamo: alcune silhouette – un uomo, una donna e due bambini, tutto ciò che rimane di umano – stampate come dagherrotipi su una parete della casa, evocano il disastro nucleare. L’umanità dunque non c’è più, si è autodistrutta. Sopravvivono i robot domestici, programmati per servirci e incapaci di comportarsi diversamente in nostra assenza.
È questione di poco tempo, però. Quando il sintetizzatore vocale dell’orologio annuncia che sono sopraggiunte le dieci, una folata di vento radioattivo colpisce la casa, provocando un principio di incendio. In breve l’intero edificio prende fuoco. Gli ostinati elettrodomestici si accartocciano uno dopo l’altro. Prima di esalare l’estremo respiro ciascuno di essi compie, per l’ultima volta, il gesto per cui era stato programmato, solerte ed efficiente fino in fondo. Poi restano solo l’odore di bruciato e un senso di struggente malinconia.
Com’è noto, il racconto rende omaggio fin dal titolo a una celebre poesia di Sara Teasdale, pubblicata nel 1920 all’interno della raccolta Flame and Shadow. Trent’anni separano i versi della poetessa americana dal racconto di Bradbury. Trent’anni e l’invenzione della bomba atomica, lanciata su Hiroshima e Nagasaki alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Su Bradbury agirono dunque una forte reminiscenza letteraria e le immagini, ancora vive, della devastazione delle due città giapponesi.
Ma oggi che effetto ci fa questo bellissimo racconto distopico? Il sospetto è che a colpirci non sia più il riferimento alla tecnologia nucleare e al suo potenziale distruttivo, come invece doveva essere per il lettore americano degli anni Cinquanta. È come se la paura della bomba fosse ormai totalmente estranea al nostro immaginario. Ci turba, semmai, la visione di tanti robot che lavorano per l’essere umano pure in sua assenza, quel vuoto di senso in cui le macchine continuano comunque ad agire. Ogni stagione ha i propri incubi tecnologici. E la fantascienza si distingue dal genere fantasy perché racconta incubi plausibili. Il nostro incubo, diciamo la nostra hybris, è l’autonomia del dispositivo tecnico.
La pubblicistica ci parla di case intelligenti (smart home): abitazioni che decidono, da sole, quando e di quanto aumentare il riscaldamento, abbassare le luci, raffreddare gli alimenti ecc. “Da sole” significa che sanno fare tutto ciò senza ricevere ogni volta i nostri comandi. Per questo le chiamiamo “intelligenti”. Ma “da sole” potrebbe anche significare “in nostra assenza”, ossia capaci di portare avanti i propri obiettivi al di fuori di un perimetro di senso umano. Capaci, insomma, di sopravviverci. Magari anche perché più adatte a proseguire in un mondo sempre meno ospitale per l’essere umano. E qui sta l’incubo, la parte oscura del sogno.