SEO che funziona: le cose da tenere d’occhio nel 2020

da | Gen 22, 2020

Ansia da SEO? Non è il caso. Come vivere sereni in un mondo in cui il CTR organico di Google cala e le keyword perdono di importanza.

In questi giorni, fra siti specializzati e blog amatoriali, è tutto un fiorire di tendenze SEO per il 2020. E l’occasione è ghiotta per proclamare la madre di tutte le tendenze: ovvero la morte della SEO come l’abbiamo fin qui conosciuta, causa il superamento della cosiddetta keyword research e delle vecchie logiche di Google. D’altronde è un classico esercizio di inizio d’anno, al quale si applicano in tanti, con voce più o meno autorevole. Salvo poi riconoscere, qualche mese dopo, che la SEO è tutt’altro che finita. E dunque ammettere che l’annuncio era quantomeno «grossolanamente esagerato», per parafrasare il telegramma con cui Mark Twain reagì alla notizia della sua improvvisa scomparsa, diffusa dall’agenzia di stampa Associated Press.

No, non sarà la fine della SEO

Vogliamo qui evitare di ingrossare la schiera dei profeti incauti. E non perché la SEO non richieda in effetti un continuo aggiornamento, che deve andare di pari passo con le novità implementate da Google e dagli altri motori di ricerca. Si tratta però di tenere un atteggiamento critico e valutare le cose sulla base delle risultanze empiriche. Espressioni a effetto, tipo «niente sarà più come prima», hanno facile presa sul pubblico ma non aiutano a capire quello che sta succedendo. Abbiamo provato a stilare, qui di seguito, una pacata lista delle cose che uno specialista SEO dovrebbe tenere d’occhio nel 2020. Sappiamo che si tratta di un elenco incompleto e che su qualche punto potremmo anche sbagliarci.

Indice degli argomenti

  • Evoluzione di Google e impatto sulla SEO
  • La strada da Hummingbird a BERT
  • Lavorare sugli intenti di ricerca
  • A caccia del featured snippet
  • Cura ricostituente per il CTR organico
  • Il peso crescente della voice search

Evoluzione di Google e impatto sulla SEO

Gli aggiustamenti dell’algoritmo di Google sono quotidiani, anche se spesso il loro impatto sembra impercettibile. Poi, almeno due o tre volte all’anno, ci sono i cosiddetti core update (in un post recente abbiamo parlato di quello di gennaio 2020) e le modifiche ancora più sostanziali, come quelle di Hummingbird (2013), RankBrain (2015) e BERT (2019).

Il punto è che, come spesso accade, si tende a esagerare l’impatto che il cambiamento manifesta nel breve periodo, sottovalutando viceversa quello che si registrerà sul medio-lungo periodo. A essere messo in discussione, oggi, è in particolare l’approccio alla SEO basato su posizionamento e frequenza delle singole keyword all’interno di un documento, da molti considerato ormai obsoleto. Perché – si dice – l’accresciuta abilità semantica degli algoritmi implementati da Google permette al motore di ricerca di comprendere il significato di quello che pubblichiamo. Ma anche – ed è questo un aspetto non meno importante – l’intento in relazione a ogni query.

In sostanza, se Google capisce di che cosa parla il nostro documento e di che cosa ha bisogno l’utente che imposta la ricerca, a prescindere dalla posizione e dalla densità delle singole parole-chiave, a che scopo affannarci nella definizione di un’adeguata keyword strategy? Il punto è che nessuna comprensione semantica avverrà mai “a prescindere” dai termini presenti nel documento. La semantica lavora a tre livelli: 1) singola parola (sintagma), 2) frase semplice o complessa, 3) contesto. La comprensione del significato della frase presuppone la competenza semantica a livello di sintagma, ma quest’ultima presuppone a propria volta la capacità di stabilire una relazione fra ciascun termine e tutti gli altri. Il significato di una parola dipende da quello delle parole che la circondano e dal contesto che “circonda” la frase.

In questo senso sarebbe sbagliato parlare di capacità semantica del motore di ricerca, in ispecie se dovessimo muoverci in una prospettiva di tipo cognitivo. Cadere nell’equivoco per cui l’algoritmo sarebbe capace di interpretare il significato di un atto linguistico nello stesso modo in cui lo fa un essere umano è un grave errore.

La strada da Hummingbird a BERT

Vediamo allora di fare un po’ di chiarezza. Il primo tentativo di Google di riconoscere il senso di un testo sulla base della relazione di ciascun termine in esso contenuto con gli altri termini dello stesso testo, anziché sulla base della loro frequenza, risale al lancio di Hummingbird. Alla base di Hummingbird c’è un brevetto depositato da Google nel 2012 con il titolo Synonym identification based on co-occurring terms. La tecnologia oggetto del brevetto implementa la capacità, a partire da un termine determinato, di identificare i suoi sinonimi all’interno di un testo, considerando tutti gli altri termini contenuti in tale testo, e di determinare di volta in volta l’indice di confidenza per il legame semantico individuato.

Due anni dopo Google Search ha introdotto un nuovo algoritmo, denominato RankBrain. Anche in questo caso si tratta di una procedura di apprendimento automatico, che impara a riconoscere le somiglianze semantiche fra termini diversi. Ricevuto un termine in input, l’algoritmo formula ipotesi sui termini che potrebbero avere un significato simile. Ogni termine è quindi collocato entro un vettore, detto rappresentazione distribuita, ovvero un raggruppamento di parole collegate da relazioni di tipo semantico.

Un ulteriore passo verso la competenza semantica di Google Search è stato compiuto con l’introduzione di BERT. Non si tratta di un progetto del tutto nuovo, anche se gli ingegneri di Mountain View lo hanno ufficializzato solo il 25 ottobre 2019. Di BERT, che per il momento non è implementato nell’edizione italiana di Google, abbiamo parlato in un recente post.

Lavorare sugli intenti di ricerca

Quali sono, per ora, gli impatti lato SEO? Non si tratta di decretare la fine della keyword strategy, ma di riconoscere la necessità di un nuovo tipo di keyword strategy. Google sta imparando a percepire la pregnanza semantica di un documento, nel senso che individua le relazioni di significato che intercorrono tra termini diversi e dunque ricostruisce il campo semantico sotteso. La nostra strategia dovrà rispondere alla necessità di costruire campi semantici densi e ricchi, lavorando non solo sulla frequenza di un singolo termine, ma anche e soprattutto sulla presenza di sinonimi e di espressioni semanticamente associabili.

Dobbiamo aspettarci che Google premi i testi più coesi, anche se è ben difficile definire una misura precisa di questa crescente capacità del motore di ricerca. Probabilmente oggi quattro occorrenze della parola ‘pesce’ valgono meno di una sola occorrenza della stessa parola, se essa è associata ai termini ‘ittico’, ‘pesca’, ‘salmone’, ‘mare’, ‘animale acquatico’, ‘avannotto’ ecc.

Ma impostare un nuovo tipo di keyword strategy significa anche lavorare meglio con keyword diverse da quelle sulle quali fin qui abbiamo concentrato i nostri sforzi. Vuol dire, cioè, ragionare con rinnovato impegno sui termini che vanno incontro ai possibili intenti degli utenti. Del resto non dobbiamo considerare le due cose necessariamente in conflitto: la cosiddetta intent research non si sostituire alla keyword research. Dunque concordiamo con John Mueller, webmaster trends analyst di Google, quando afferma che mostrare parole specifiche agli utenti può rendere un po’ più facile per loro capire di cosa parlano le nostre pagine e a volte può guidarli lungo il processo di conversione (Google’s John Mueller on intent research vs keyword research for 2020).

Altro che fine della SEO, insomma. Semmai tutto questo suggerisce l’opportunità di avviare un lavoro di riattivazione di vecchi contenuti in ottica SEO, cercando di determinare un nuovo equilibrio fra le diverse parole chiave. Del resto, quello di portare traffico fresco sulle glorie del passato è sempre un nobile obiettivo (si vedano le buone pratiche suggerite nell’interessante post How to breathe fresh life into evergreen content (and get fresh traffic, too), di George Nguyen).

A caccia del featured snippet

Quello dei featured snippet è un altro tema caldo, al quale converrà dedicare parecchia attenzione del 2020. Un fatto è certo: i featured snippet hanno un peso sempre maggiore nella composizione della SERP, come dimostra l’analisi dinamica di SEMrush Sensor. Oggi contiene un featured snippet oltre il 12% delle SERP negli Stati Uniti e quasi l’8% in Italia.

Ricordiamo che i featured snippet sono di tre tipi: quelli contenenti un paragrafo con una descrizione del contenuto del documento, quelli a elenco, non organizzato o numerato, e quelli a tabella. Dobbiamo dunque decidere in quale dei tre scenari vogliamo concorrere, e organizzare il nostro documento di conseguenza. E, prima ancora, dobbiamo decidere se il featured snippet ci conviene. Occorre essere consapevoli, infatti, che esso avrà un impatto negativo sul click-through rate, come mostra un estensivo studio di Ahref di tre anni fa, benché Christian Carere sembri esprimere un punto di vista diverso in questo post su Ryte Magazine.

Infine, una ricerca di SEMrush, realizzata nel 2018, suggerisce una serie di buone pratiche:

  • Pubblicare documenti con testi di una certa lunghezza (almeno 2000 parole)
  • Usare un’immagine in evidenza a sviluppo orizzontale (4:3, 600×425 pixel)
  • Includere link che portino a risorse esterne autorevoli
  • Stimolare il social engagement sulla pagina
  • Garantire all’utente una eccellente fruizione con dispositivi mobili
  • Aggiungere alla pagina uno “sinppet bait” di 40-60 parole (se si punta al paragraph snippet)
  • Usare tag di intestazione H2 o H3 per ciascuno degli elementi dell’elenco (nel caso di list snippet)
  • Inserire una tabella nel testo (table snippet)

Un’ulteriore tendenza che dovrebbe consolidarsi nel 2020 è quella che vede un incremento dei featured snippet con formato video. Dunque occorre rendere i video che pubblichiamo più facilmente indicizzabili da parte di Google Search. Questo significa organizzarli in sezioni distinte nel nostro canale di YouTube, ottimizzarli dal punto di vista SEO (ricordandosi di valorizzare title, description e tag), fornire la trascrizione della traccia audio e inserire i video all’interno degli articoli che pubblichiamo nel nostro sito.

Cura ricostituente per il CTR organico

Facciamocene una ragione: il click-through rate organico sta diminuendo sulla SERP, specie nella versione mobile di Google. Nel 2018 Rand Fishkin fotografò un calo assai significativo misurato nell’arco di tre anni: dal 66 al 39%. (si veda New Data: How Google’s Organic & Paid CTRs Have Changed 2015-2018, su SparkToro). Va detto che a ciò non corrisponde un aumento particolarmente rilevante nel CTR sponsorizzato, il quale non raggiunge il 4%.

Come contrastare questa tendenza? Occorre lavorare sui fattori che influenzano maggiormente il CTR. Il più importante, ovviamente, è il posizionamento nella SERP. Secondo un’elaborazione di Brian Dean del 2019, realizzata per Backlinko su dati di ClickFlow, il CTR medio degli snippet in prima posizione è pari al 31,7%, dieci volte superiore a quello della decima posizione. Passare dalla terza alla seconda posizione può determinare un incremento del CTR superiore al 30%. L’impatto è molto meno significativo scendendo verso il basso, al punto che non c’è grande differenza fra la decima e la settima posizione.

Altri fattori importanti per stimolare il CTR sono:

  • la presenza di una domanda nel tag title (+14,1% rispetto al CTR medio)
  • la presenza della parola chiave principale nella URL (+45%)
  • il taglio emozionale del titolo del nostro contenuto (+7%)
  • la presenza di un contenuto nel tag meta description (+5,8%)
  • una lunghezza del tag title compresa fra 15 e 40 caratteri (+8,6%)

Il peso crescente della voice search

La ricerca vocale sta entrando nella fase della maturità. Merito di due tendenze che si alimentano a vicenda: da un lato il progresso rapidissimo delle capacità delle tecnologie di speech recognition, dall’altro la diffusione degli assistenti personali (Google Assistant, Amazon Alexa, Microsoft Cortana e Apple Siri) a bordo di smartphone e smartspeaker (Amazon Echo, Google Home).

Questo non significa che il riconoscimento vocale abbia superato tutte le sfide applicative che da sempre lo attendono. In particolare non è ancora pronto per essere impiegato in molti contesti dell’IoT. Pensiamo, per fare un solo esempio, alla perdurante difficoltà che incontriamo a governare un apparato attraverso i comandi vocali impartiti contemporaneamente da fonti diverse. Bastano due persone che parlano nella stessa stanza per mettere in difficoltà sistemi come Alexa o Siri. Per non parlare delle ridotte possibilità di personalizzazione.

Nel campo della ricerca online, però, l’uso della voce è ormai affermato. Non crediamo che la quota di ricerche comandate dalla voce sia pari al 50%, come talvolta si afferma. L’equivoco è stato generato probabilmente dai risultati di uno studio di Adobe del luglio 2019, secondo il quale il 48% degli americani usa l’assistente vocale per le proprie ricerche online. E, nella quasi metà dei casi, ciò avviene con frequenza quotidiana.

Che cosa significa ottimizzare un documento web per la ricerca vocale? Ecco, anche in questo caso, alcuni suggerimenti per chi si occupa di SEO dei contenuti:

  • Adottare uno stile di scrittura naturale e conversazionale
  • Allungare la coda della propria keyword strategy e non trascurare le vecchie stop-word
  • Cercare sempre di calare il proprio contenuto in un contesto
  • Integrare dati strutturati nei documenti che pubblichiamo
  • Lavorare con la proprietà speakable di Schema.org, per permettere al motore di ricerca l’identificazione delle sezioni adatte alla riproduzione audio utilizzando il text-to-speech (TTS)
Paolo Costa
Paolo Costa
Socio fondatore e Direttore Marketing di Spindox. Insegno Comunicazione Digitale e Multimediale all’Università di Pavia. Da 15 anni mi occupo di cultura digitale e tecnologia. Ho fondato l’associazione culturale Twitteratura, che promuove l’uso di Twitter come strumento di lettura attraverso la riscrittura.

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