Artefatti e mente umana, sviluppo reciproco o alienazione. Il design cognitivamente sostenibile e l’esperienza umana attraverso i sensi.
Se da un lato la tecnologia rende la vita più semplice e piacevole, dall’altro rischia di atrofizzare le capacità cognitive dell’essere umano. Ricordarsi le cose, fare di calcolo, orientarsi nello spazio: sono tante le funzionalità della mente che deleghiamo alle macchine. In che modo sfruttare le potenzialità del digitale, mantenendo al tempo stesso allenati i nostri neuroni? Serve uno sviluppo cognitivamente sostenibile della tecnologia.
L’essere umano da sempre crea artefatti – sociali, culturali, virtuali. I più comuni, gli utensili, nascono per completare un’operazione: oggetti “modificati dall’uomo” per soddisfare scopi diversi. Come la risoluzione di un problema o lo svolgimento di una determinata azione. Ma alcuni artefatti non si limitano a questo: la loro invenzione introduce a volte un nuovo modo di interagire con il mondo. Gli oggetti che creiamo possono infatti cambiare il nostro modo di agire e interagire con ciò che ci circonda. Pensiamo alla ruota, all’incredibile sviluppo derivato da un’invenzione così semplice. Alle sue implicazioni produttive e sociali. Ma non basta. Se parliamo di artefatti virtuali, come interfacce software o dispositivi intelligenti, oltre a modificare l’interazione con il mondo, queste entità possono cambiare persino gli schemi mentali con cui il mondo stesso viene da noi interpretato. E, di conseguenza, il nostro modo di essere.
Psicotecnologie
È un tema, questo, su cui hanno molto riflettuto Marshall McLuhan e i suoi allievi della scuola di Toronto. In studi fondamentali, come Brainframes e La pelle della cultura, Derrick De Kerckhove ha sviluppato in tal senso il concetto di psicotecnologia. Sono psicotecnologie tutti gli artefatti che inducono il cervello ad elaborare nuovi paradigmi cognitivi e dunque modificano la nostra percezione del mondo.
Attraverso la sua mente, insomma, l’essere umano sviluppa artefatti cognitivi – schemi mentali, procedure ma anche software e modalità di comunicazione come Internet – che a loro volta intervengono nello sviluppo della mente stessa. Un artefatto cognitivo è infatti qualcosa creato dall’essere umano per aiutarlo a svolgere compiti mentali, come un calendario. Avvalendosi di questi strumenti, in uno scambio continuo e reciproco, la mente umana diviene così sempre più il risultato della somma tra la mente naturale e gli artefatti cognitivi che essa stessa ha prodotto. La mente, così intesa, è tecnologica ed estesa.
Ma cosa accade se le abilità cognitive di cui l’uomo si avvale per compiere le attività quotidiane vengono interamente sostituite dal ricorso a nuovi artefatti? Non vi farà piacere sapere che quando ciò si verifica, i processi neurali tendono ad atrofizzarsi.
“Fuck you RFID!!” di Wendelin Jacober.
Uno strumento diffusissimo come la calcolatrice può ridurre, ad esempio, la nostra capacità di fare calcoli a mente. Mentre la mole di dati che ogni giorno inviamo al nostro cervello mette a dura prova la nostra memoria. Anche se non a breve termine, l’utilizzo di servizi che permettono la visualizzazione di carte geografiche digitali indebolirà la capacità umana di orientarsi autonomamente. Perché le informazioni ci arrivano in quantità e a velocità elevate per il nostro cervello, che non riesce a creare a livello molecolare le cosiddette sinapsi: i punti di contatto funzionale tra due cellule nervose – i neuroni – che garantiscono la trasmissione dell’impulso nervoso da un neurone all’altro. In breve, non abbiamo il tempo biologicamente necessario per apprendere.
Sostenibilità ecologica? No, sostenibilità cognitiva
Così non ci resta che parlare di sostenibilità anche per l’apprendimento. Il termine sostenibilità nasce dalla confluenza delle scienze ambientali, sociali ed economiche. Con sostenibilità, secondo la definizione fornita dalla World Commission on Environment and Development (Commissione Mondiale sull’Ambiente e lo Sviluppo), si indica una visione capace di mettere in atto uno «sviluppo che soddisfa i bisogni del presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri bisogni». Intendendo così la capacità di preservare e rinnovare le risorse naturali (sostenibilità ambientale o ecologica), generare reddito e lavoro (economica), garantire il benessere umano in termini di salute, sicurezza e istruzione (sociale).
Con il tema della “sostenibilità cognitiva”, emerge la necessità di mantenere intatte le nostre capacità cognitive alla luce degli artefatti che ogni giorno ci sollevano dal compito di mettere in pratica le nostre abilità mentali. Affinché le generazioni future dispongano ancora di una mente capace di apprendere.
Come il design ecologicamente sostenibile mira alla progettazione di artefatti in grado di non provocare danni all’ambiente circostante, allo stesso modo il design cognitivamente sostenibile deve occuparsi di non indebolire ma salvaguardare le capacità cognitive della mente umana: memoria, attenzione, apprendimento, pensiero. ‘Sostenibile’ perché la sostenibilità – intesa come l’atto di sostenere – diviene la proprietà attraverso la quale un processo o uno stato si mantengono in equilibrio nel tempo.
Come si legge nel paper Sostenibilità cognitiva degli artefatti nel processo di design – di Conti, Dell’Ava, Lanza, Nardecchia, Passiatore, Sejati –, da sostenibilità ecologica, economica e sociale il passaggio alla sostenibilità culturale, emotiva e infine cognitiva, è semplice. La sostenibilità cognitiva suggerisce la creazione di spazi – digitali e non – che non si limitino a vivere in parallelo a quelli reali, ma che riescano a fondersi o a integrare le naturali modalità di interpretazione del mondo da parte dell’essere umano.
Nell’articolo di Stefano Caggiano a proposito di sostenibilità cognitiva – pubblicato nella rivista Interni Magazine –, si fa riferimento agli schermi degli smartphone – neutri e piatti – le cui applicazioni sono separate singolarmente: uno schema che non rispecchia il funzionamento della mente, che non avviene certo per app distinte, cioè per compartimenti stagni. Questa è una rappresentazione virtuale che infatti non tiene conto del contesto dei nostri sensi. Non solo, invece di avvicinarci alla realtà, ognuno di noi ne è sempre più lontano e alienato. A questo proposito, torna utile il riferimento di Caggiano al concetto di analfabetismo funzionale: l’incapacità di calcolo o comprensione di testi molto semplici e di trarne da essi le informazioni necessarie nella quotidianità (se l’argomento vi interessa, se ne parla in maniera approfondita – con dati sulla situazione del fenomeno in Italia – nell’articolo di Elisa Murgese, su L’Espresso).
Se oggi gli artefatti virtuali prodotti dall’essere umano stanno relegando l’uomo al ragno prigioniero e intrappolato dalla sua stessa tela, la sostenibilità cognitiva mira a ribaltare tale processo, affinché, a partire dall’uomo stesso, gli oggetti possano essere inglobati nella realtà, attraverso i canali sensoriali propri dell’essere umano. Colori, forme, suoni e odori: i sensi diventano protagonisti di un processo fisico attraverso il quale immaginare interfacce corporee composte da materiali intelligenti che siano in grado di catturare i sensi stessi, interpretarli e trasmetterli di nuovo all’essere umano attraverso manifestazioni sensoriali (battito cardiaco, temperatura ed espressioni facciali). Artefatti che dialogano con la mente, estendendone le sue potenzialità. E non il contrario.