Una rassegna al Film Museum di Vienna riflette sul rapporto fra tecnologia e rappresentazione delle nostre paure inconsce nel cinema di fantascienza.

L’incubo della tecnologia. E dunque il sentimento di ineludibile malinconia che nasce dal rapporto con essa. La tecnologia vissuta come motore distopico e al tempo stesso oggetto di desiderio, idolo da adorare o distruggere, amico intimo e straniero in casa nostra, nel nostro corpo. A questo si sta riducendo la condizione di ‘homo technologicus’?

La domanda è attuale ma viene da lontano. Katherina T. Zakravsky, studiosa di fantascienza, scrittrice e artista concettuale, fissa una data simbolica: il 1968. In quell’anno accadono due cose, a parte il resto: nasce il Club di Roma, che diverrà famoso per il discusso Rapporto sui limiti dello sviluppo; e, quasi in contemporanea, esce nelle sale cinematografiche di tutto il mondo 2001: Odissea nello spazio, capolavoro di Stanley Kubrick (anche se la derivazione da Sentinel of Eternity, romanzo breve di Arthur J. Clarke, ci impone di retrodatare il nucleo del soggetto cinematografico di circa un ventennio). È dunque al 1968 che facciamo risalire l’inizio di quella cifra malinconica, la quale permea tanto una parte consistente del pensiero scientifico contemporaneo, da Peccei in avanti, quanto la migliore produzione fantascientifica di questo stesso periodo.

Distopie

I nostri incubi di oggi si chiamano machine learning, robotica, editing genetico. Ma a ben vedere sono gli stessi che aleggiano nel celebre film di Kubrick. Si comprende allora la scelta di far cominciare proprio con tale film la bellissima rassegna cinematografica Triste Technik: Science-Fiction und Melancholie, in programma fra dicembre e gennaio all’Austrian Film Museum di Vienna (OeFM) . Una rassegna di grande interesse, che induce a riflettere sul rapporto fra la tecnologia e le paure inconsce nel mondo contemporaneo. A curarla è proprio la citata Katherina Zakravsky, non nuova a ricerche di questo tipo. Due anni fa, al Science Art Film Festival di Vienna, presentò un lavoro su Dark Star (film del 1974 di John Carpenter), letto in chiave distopica.

Chi si occupa di tecnologia come fatto culturale profondo, e non solo come gadget, trova dunque al Film Museum austriaco pane per i suoi denti. Alcune delle pellicole in cartellone sono da culto: si va da 2001: Odissea nello spazio a Blade Runner e Videodrome, passando per Il pianeta delle scimmie, Dark Star e Sindrome cinese, solo per citare i titoli più popolari. Accanto a questi, film meno noti ma altrettanto significativi, come Welt am Draht (opera del 1973 del tedesco Rainer Werner Fassbinder).

Malinconie

Ma che cosa alimenta il sentimento della malinconia tecnologica? Forse il suo progressivo nascondimento. I dispositivi contemporanei hanno un carattere paradossale: ci appaiono al tempo stesso ipertecnologici e naturali, proprio come gli occhi di Rachel, splendida e triste replicante di Blade Runner. Il dispositivo non si pone come entità altra rispetto al soggetto. Esso è ‘in limine’: né oggetto né soggetto, in-umano più che dis-umano. Il dispositivo è dentro di noi, ma estraneo. Kenneth McKenzie Wark lo definisce «intimate stranger».

Il nostro destino è di vivere in simbiosi con la tecnologia (come la chiocciola con il suo guscio, suggerisce Paolo Gallina). Ci portiamo appresso la tecnologia, con tutto il suo carico di inquietudine, alienazione e fascino. Il rapporto con la tecnologia non può che avere un carattere sentimentale. Nel bene e nel male, esso riguarda più il cuore che la ragione.