La moda degli hackathon impazza, finalmente anche in Italia. Tutti ne parlano, molti ne organizzano, in tanti vi partecipano. Recentemente, per darsi una patina innovativa, anche il Ministero italiano dell’Istruzione ha annunciato un hackathon a favore della Buona Scuola, una sorta di Data School Nazionale. In realtà non si tratta di un’esperienza nuova. È da almeno dieci anni che si svolgono hackaton negli Stati Uniti e nel resto del mondo. Certo si tratta di una grande occasione di visibilità per le imprese e un modo per mettersi in gioco. Alcuni di questi appuntamenti portano alla nascita di veri e propri progetti.
Questo non significa che mettere insieme decine di sviluppatori per 24-48 ore, affidare loro una missione e spremerli fino all’ultimo minuto per vedere qual è il risultato finale sia un’impresa semplice. Occorre seguire alcune regole di base, che nel nostro paese non sono sempre rispettate. Innanzi tutto è importante definire con cura la durata dell’incontro e il periodo della settimana. In Italia si organizzano sovente hackathon troppo brevi e si evita – non si sa perché – il fine settimana. Poi occorre curare con intelligenza l’aspetto infrastrutturale: gli sviluppatori devono trovare un ambiente di sviluppo coerente con gli obiettivi della sfida e perfettamente funzionante. Le API messe a disposizione, poi, devono essere chiaramente descritte. Non meno importante è la comunicazione dell’hackathon: non solo quella realizzata prima, per promuoverlo, ma anche e soprattutto quella sviluppata dopo l’evento, con l’obiettivo di fare conoscere il lavoro dei partecipanti. L’hackathon è innovazione dal basso, che non può restare confinata entro le mura degli organizzatori.
Ci sono dei benchmark? Certamente, e – come spesso capita – vengono dagli Stati Uniti. Abbiamo fatto un salto a New York per seguire i lavori del Disrupt NY 2015 Hackathon. L’evento ha visto protagonisti ben 106 team che si sono sfidati a colpi di codice.
Quest’anno sono stati più di 1000 gli hacker a riempire il Manhattan Center tra il 2 e 3 maggio. L’hackathon ha anticipato quello che, attualmente in corso, è il main event targato TechCrunch. Live streaming direttamente in home page techcrunch.com/ per il Disrupt NY 2015.
Numerosi e importanti gli sponsor di questa edizione, da IBM a Microsoft passando per Mastercard. Ognuno di questi mette a disposizione parte dei proprio servizi durante l’evento ed eventuali premi speciali per i progetti più validi. Interessante anche il caso di Zalando che, come sponsor, ha incentivato i partecipanti all’utilizzo delle proprie API pubbliche con dei premi in palio per chi ne avesse fatto uso nel modo migliore.
Quello che però in questi casi fa la differenza dopo 24 ore ininterrotte di lavoro indefesso ai pc è il pitch, la presentazione della propria idea. Riuscire a trasmettere in pochi minuti (in questo caso poco più di uno) quanto si crede nel proprio progetto, e perché diventerà il prossimo Uber non è per niente facile, ma nemmeno impossibile.
Ad aggiudicarsi il premio di 5000 dollari di TechCrunch è stata Witness una app che permette di contattare in modo immediato i nostri cari quando ci troviamo in situazioni di pericolo, con un semplice tap. Al secondo posto si classifica invece non un’app ma un hardware device. Si tratta di Picorico, uno strumento che – montato sulla propria mountain bike – può misurarne differenti parametri, come la compressione delle sospensioni. Infine al terzo posto troviamo MoolahMe, un’app che permette il pagamento peer to peer in cloud tra dispositivi che si trovano in prossimità.
Se siete curiosi di vedere i Pitch di chi ha vinto ecco l’articolo ufficiale di TechCrunch:
Witness Wins The Disrupt NY 2015 Hackathon Grand Prize, Picorico And MoolahMe Are Runners Up