Zoom fatigue e social media: Lovink e la tecno-tristezza

da | Gen 18, 2021

I social media hanno un ruolo di primo piano nelle nostre vite. Con l’emergenza epidemiologica da COVID-19, questo ruolo è diventato ancora più determinante. Insieme alla tristezza generata dai social, si è diffuso un nuovo tipo di stanchezza: la Zoom fatigue.

Una delle innumerevoli conseguenze del COVID-19 è che siamo tutti vittime della Zoom fatigue, la stanchezza da videoconferenza. Insieme, stiamo elaborando un tipo di crollo emotivo denominato tecno-tristezza, la tristezza tecnologica generata da una vita consumata nelle principali piattaforme “sociali”. Queste due tesi sono alla base di una riflessione più ampia del celebre studioso Geert Lovink, uno dei protagonisti europei della costruzione di una prospettiva critica sui nuovi media, autore di molti libri (il più recente, Sad by Design: On Platform Nihilism, è uscito in Italia nei 2019 per i tipi di Egea con il titolo Nichilismo digitale. L’altra faccia delle piattaforme).

Gli effetti collaterali di Zoom e i social network, il lato oscuro della Rete

Verso la fine dell’anno appena concluso, Lovink ha presieduto la conferenza online ‘The Dark Side of the Net’, collocata all’interno del ciclo di seminari ‘Scienze umane, Computer Science e Digital Media’ organizzati dal Centro Internazionale di Studi Umanistici “Umberto Eco” dell’Università di Bologna.

L’analisi del noto ricercatore si rivolge al software sociale della Rete ed è dedicata alle trame dei discorsi che si sviluppano sulle mailing list, sui blog ma anche agli eventi off-line e ai rapporti che si organizzano grazie alla Rete stessa. In linea con gli usi e abusi della Rete incrementati dalla recente pandemia, Geert Lovink si è focalizzato sugli effetti collaterali e sull’impatto negativo che l’utilizzo di Internet e dei social media ha sugli esseri umani, soffermandosi su due tematiche principali: la Zoom fatigue, la stanchezza causata dal continuo interfacciarsi con uno schermo, e l’impatto emotivo generato dai social media. 

COVID-19, smart working e videoconferenze

Con la diffusione della malattia da nuovo Coronavirus e il continuo susseguirsi dei lockdown, le aziende hanno dovuto riorganizzarsi per perseguire la propria attività rispettando le nuove normative. 

I settori e le imprese che ne hanno avuto l’opportunità, hanno introdotto ― o esteso, come nel caso di Spindox ― lo smart working, trasferendo l’ufficio a casa di ogni collaboratore e sfruttando le videochiamate come mezzo di comunicazione principale. Per Lovink è evidente che ci siano notevoli limiti in un incontro via Zoom e non di persona, sebbene in questo momento risulti essere l’unica soluzione possibile per molte realtà.

Le imprese sono state costrette ad adattarsi rapidamente. Hanno puntato sullo smart working, sul lavoro da remoto. Per alcune si è trattato di forzare un percorso di trasformazione digitale; per altre, di accelerare un processo in realtà già in corso.

Noi parlavamo di smart working nel 2015, chiedendoci chi lo facesse sul serio. Se vuoi fare un tuffo nel passato per capire com’è cambiato lo scenario nel tempo, il nostro articolo lo trovi qui. (A tutte le mamme e i papà che stanno leggendo questo post, consigliamo anche il progetto Spindox 4 Kids lanciato durante il primo lockdown: ‘Spindox 4 Kids: tante idee per conciliare smart working e figli in casa’. Questo è il link alla nostra iniziativa.)

Le conseguenze della Zoom fatigue e dei social media sugli utenti

Se da una parte queste piattaforme sono la soluzione ai limiti imposti dalla pandemia, dall’altra, come spiega Lovink ― e come chi lavorando in smart working ha potuto sperimentare ― questa nuova forma di comunicazione causa inevitabilmente effetti collaterali sulla propria condizione psico-fisica. È la Zoom fatigue.

Il concetto di Zoom fatigue è esteso, chiaramente, a tutte le piattaforme della stessa tipologia come Microsoft Teams, Skype for Business, Google Classrooms, Google Meet, GoTo Meeting, Slack, BlueJeans e così via. La causa principale della stanchezza è legata allo sforzo che il cervello deve compiere non potendosi interfacciare fisicamente con una persona e dovendo gestire diverse attività, senza apparentemente un vero focus. Zoom e tutte le piattaforme di videochiamata hanno inoltre aumentato il lavoro a carico di ciascun individuo, riducendo così il tempo a disposizione per gli amici, la famiglia e il tempo libero. 

Il palcoscenico virtuale, le piattaforme di videoconferenza e i social media

È difficile rilassarsi durante conversazioni che hanno luogo ― è un po’ un paradosso ― su questi tipi di piattaforme digitali. Ci si sente sempre osservati, come fossimo attori su un palcoscenico: impossibilitati ad abbandonarlo prima di avere concluso la propria parte. Si avverte la pressione e la necessità di recitare, rendendo il tutto molto stressante. 

Inoltre, la possibilità di vedere la propria immagine nello schermo crea la sensazione di essere in una stanza piena di specchi, generando stanchezza nell’individuo che continua a guardarsi, prestando attenzione a ogni singolo dettaglio nella speranza di apparire nel migliore dei modi possibili. Su questo tema in particolare si è soffermato il nostro Paolo Costa, in una interessante riflessione dal titolo ‘The background is the message: semantica e pragmatica dello sfondo’ (per approfondimenti, vi invitiamo a leggere l’articolo di Costa pubblicato su LinkedIn Pulse, potete trovarlo qui.)

È importante aggiungere che la mancanza di contatto visivo e di feedback non verbali crea una sensazione di distaccamento. Di conseguenza è come se stessimo vivendo in modalità “galleria”. In una bacheca virtuale di uno qualsiasi dei nostri social network preferiti, in costante aggiornamento.

Zoom stesso diventa un luogo sostitutivo dell’ufficio. Non essendo effettivamente in ufficio, ci dimentichiamo cosa stiamo cercando di imitare e cosa stiamo cercando di ricreare, unendo così ciò che è personale con qualcosa che non lo è.  

I social media e la tristezza tecnologica

I social network non sono qualcosa di essenziale che possa essere definito all’interno di una categoria come, per esempio, la sfera economica. Ma si può dire che i social esistano nel momento in cui si crea aggregazione di utenti e profili. 

Oltre alla Zoom fatigue, Lovink evidenzia un altro aspetto rilevante della sua indagine: la nostra identità è sempre più vincolata dai social media. Attraverso queste piattaforme esprimiamo noi stessi. Il profilo delle reti social assume quindi un ruolo sempre più significativo. Per tale ragione, una minaccia sui social media ha conseguenze nella vita reale. 

Il paradosso è che, le reti sociali, sebbene siano definite come fonte di aggregazione, provocano tristezza. Le cause che generano questa emozione possono essere varie: il continuo ricaricare la Home di queste applicazioni nella speranza di trovare qualcosa di nuovo e interessante; la lettura di informazioni in maniera compulsiva; il trovarsi di fronte a fake news che generano rabbia; il venire a conoscenza di fatti e dettagli di persone e cose che probabilmente non abbiamo visto di persona. In aggiunta, oltre alla tristezza, sono fonte di ansia da prestazione legata al numero di visualizzazioni, like e commenti. 

Realtà e finzione: il dilemma delle piattaforme di aggregazione sociale

Lo smartphone è diventato parte di noi, qualcosa da cui non riusciamo più a separarci. Di conseguenza i social network e la nostra psiche sono diventati un tutt’uno, trasformando la vita di ogni giorno in una vita social. 

Ne deriva una nuova condizione che può essere definita come un ibrido tra la vita legata ai social media e la struttura psichica dell’utente. In questa nuova dimensione tutto ruota intorno all’individuo e al suo profilo, definito da numero di like e follower. Realtà e finzione si mescolano e diventa sempre più difficile distinguere gli elementi di una e dell’altra. La tristezza che ne scaturisce viene associata a una mancanza di connessione reale. E l’unica soluzione per superare questo stato, sembra essere l’odio.

Tuttavia, la tristezza è sempre esistita. Ancora prima della nascita dei social media, l’essere umano provava tristezza. E non si tratta di un’emozione negativa. Al contrario, ha aiutato la specie umana a evolversi segnalando situazione pericolose o potenzialmente dannose. La tecno-tristezza però è una cosa diversa, emerge quando siamo lontani dal nostro cellulare. I risultati di questa tristezza tecnologica sono la sensazione di stanchezza, di esaurimento e perdita di energia. Tutto ciò è lontano dall’emozione che tutti noi conosciamo e che abbiamo sperimentato in maniera del tutto naturale nelle nostre vite.

Va precisato, infatti, che la tristezza non è una malattia ― diversamente dalla depressione ―, ma una normale condizione emotiva dell’essere umano. 

La smania di ricerca di eventi digitali

La realtà dei blog dell’era del Web 2.0 è stata ampiamente superata dai social network permettendo aggiornamenti in tempo reale su quello che si sta facendo. Le storie di Instagram sono una catena di eventi la cui durata è pari a quella di un giorno. Una volta esaurito il tempo, l’individuo è pronto ad andare avanti, alla ricerca di nuovi eventi. La scomparsa delle story permette infatti all’utente di ridurre la tristezza provata cercando nuove prospettive, senza dover soffrire per quello che è stato e che ormai è passato. 

Gli individui si fidano dei social media in quanto pensano di essere in grado di controllarli. Una volta entrati nel vortice di questa dimensione, però, non è così semplice uscirne. Allo stesso modo, non ci si rende conto delle conseguenze della Zoom fatigue. In alcuni casi vivere nella nuova realtà sociale potrebbe provocare all’individuo una riduzione di autostima, dovuta a una mancanza di gratificazione immediata. La tristezza si fa largo tra gli individui anche nel momento in cui gli stessi sono esausti del mondo online e devono prendersi una pausa dalla realtà dello swipe.   

Eliminare il proprio profilo sui social network

Se provassimo a liberarci del nostro profilo, che è ciò che ci identifica, cosa accadrebbe? 

Nell’era dei social media, ‘cancellare’ si traduce in smettere di seguire o rimuovere dai contatti un individuo, introducendo la ‘cultura della cancellazione’. La perdita di follower corrisponde alla perdita di reputazione, ma anche di guadagno. Infatti, meno like sono simbolo di un profitto ridotto. E questo è il prezzo che intellettuali e artisti devono pagare una volta entrati nel vortice dei social media. 

Tutto dipende da algoritmi il cui obiettivo è generare il maggior numero di interazioni (click, like, commenti, retweet e così via) al fine di farci rimanere sul canale social il maggior tempo possibile. Poiché le reti sociali cambiano in continuazione l’algoritmo su cui si basano, l’individuo che cerca di farsi notare prova sofferenza e avverte la pressione del cambiamento. Tutto ciò rende difficoltosa la creazione di contenuti, che allo stesso tempo comporta un allontanamento dalle piattaforme stesse. Ma l’assenza dal social network in questione e quindi la mancanza di produzione di post, ha come conseguenza l’essere dimenticati dall’algoritmo. Ottenendo quindi meno visualizzazioni. E il ciclo ricomincia.

Questo è il lato oscuro di social media e piattaforme di videoconferenza

Se agli albori i social media erano considerati solo come una forma di intrattenimento, oggi, come evidenziato da Lovink, incidono sulla realtà psicologica in modo molto più profondo di quanto si possa immaginare. 

L’utilizzo incontrollato di Internet è causa di emozioni e stati d’animo diversi a seconda di quello che si sta facendo e ha un innegabile impatto sugli esseri umani. La Zoom fatigue e la tristezza generata dall’utilizzo smodato dei social media influiscono sul benessere dell’individuo. Questo avrà delle ripercussioni sia a livello personale sia nelle relazioni con gli altri. 

Non potendo sottrarci alla realtà della Rete, né liberarci dei social network, non è facile immaginare una possibile soluzione ai dilemmi presentati. Si potrebbe pensare di ridefinirli e ristrutturarli. È bene ricordare che, appena se ne ha l’opportunità, distogliere lo sguardo dallo schermo per il maggior tempo possibile porta notevoli benefici non solo nell’affrontare il tecno-stress ma anche la Zoom fatigue e la tecno-tristezza causata dai social media.

Quello che più di ogni altra cosa dovremmo imparare a fare, però, è ricordarci che si tratta di strumenti dalle potenzialità incredibili e, cercare un modo per conviverci. Cercando, cioè, di trarre il meglio da ogni situazione.

Beatrice Mingazzini
Beatrice Mingazzini
Laureata in economia e management per arte, cultura e comunicazione, è specializzata in design e moda. Appassionata del viaggio on the road, sempre alla scoperta di qualcosa di nuovo, nel tempo libero le piace sperimentare tecniche di pittura.

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